Da una informativa dei Ros, resa pubblica stamani dai principali quotidiani calabresi e ripresa anche da alcune testate nazionali, emerge il tentativo dell’entourage dell’ex consigliere regionale della Calabria Santi Zappalà, di trovare qualche scorciatoia utile per una rapida ed indolore soluzione della sua condizione di detenuto. Ricordiamo rapidamente il caso. Zappalà, candidato eletto nelle liste del Pdl nell’ultima tornata elettorale regionale, era finito in manette a ridosso delle festività natalizie per aver intrattenuto in campagna elettorale rapporti con alcuni esponenti di spicco della ‘ndrangheta. Gli incontri, filmati dalle forze dell’ordine, non lasciavano spazi interpretativi circa la condotta tenuta dal neoconsigliere divenuto frattanto destinatario di un ordine di arresto. E’ bene ricordare che, nonostante alcune indiscrezioni di stampa avessero palesato con largo anticipo alcuni fatti posti alla base dell’impianto accusatorio, l’intero panorama politico locale preferì in una prima fase fare finta di nulla, salvo poi rifugiarsi dietro le solite parole vuote nel momento in cui intervenne la magistratura. Il punto però è un altro e la domanda nasce spontanea, direbbe Lubrano: come mai l’indagato, i suoi amici e parenti più stretti sembrano nutrire una fiducia così piena nella possibilità che la vicenda si “aggiusti”? Solo millanterie e parole al vento? O c’è dell’altro? L’Italia è storicamente un Paese molto complicato dove, a parte la stucchevole retorica dello stato e dell’antistato, mondi apparentemente molto distanti tendono a confondersi per creare quasi inerzialmente un sistema di potere che si autoalimenta. Per decenni i potenti di questo sventurato Paese hanno goduto di una immunità “de facto” e per potenti, sia chiaro, non intendo soltanto agli uomini politici. Prima delle stragi che uccisero Falcone e Borsellino quasi tutti i boss mafiosi, nonostante le strade di Palermo come di Reggio Calabria fossero perennemente imbrattate di sangue, morivano sistematicamente nel loro letto e molto di rado subivano la repressione degli apparati dello Stato. Eppure, diciamoci la verità, non è che ci volesse uno straordinario sforzo di fantasia per individuarli. Ma un livello di collusione estremo che pervadeva le istituzioni legittime, oramai pacificamente accertato, garantiva impunità diffuse. Oggi la situazione pare diversa, eppure “chi conta” nutre sempre la scellerata convinzione di poterla fare franca. In Calabria è fortemente diffusa la percezione che per dormire sonni tranquilli non serva tanto una condotta esemplare, quanto piuttosto la capacità di condizionare gli organi i controllo. E chi guida la locomotiva del potere di leve da azionare per fare “tutti contenti” ne ha obiettivamente parecchie. E così, blandendo e rappresentando realtà metafisiche, che si consolidano sistemi di potere oscuri e impermeabili. Se poi aggiungiamo il fatto che chi, a torto o a ragione, ha provato in Calabria ad alzare il livello delle indagini fino a coinvolgere le solite classi dirigenti indigene è stato bruscamente fermato, il quadro si fa oltremodo preoccupante. Uno studio, condotto tra gli altri dal magistrato Piercamillo D’Avigo, sottolineava come in Calabria siano scarsissime le pronunce di condanna nei confronti di chi si macchia di reati contro la pubblica amministrazione. Probabilmente abbiamo, a dispetto di Cetto La Qualunque, una élite di persone illuminate al comando della cosa pubblica da far invidia alla Svizzera tedesca. Oppure qualcosa non torna.
Francesco Maria Toscano