Prima negavano tutti sdegnati, ora in molti tentano di scaricare su altri alcune gravissime responsabilità. Un cono d’ombra doloso e maleodorante continua ad avvolgere un pezzo fondamentale della nostra storia recente, precisamente quello riguardante il tramonto della prima Repubblica e l’alba della Seconda. Un cambiamento accompagnato dalle bombe mafiose che nel 1992 straziarono i corpi di Falcone, Borsellino e gli uomini della scorta per poi, un anno dopo, colpire il cuore del patrimonio artistico italiano con gli attentati di Milano, Roma e Firenze che costarono la vita a molti innocenti, tra cui una bimba di pochi mesi. A venti anni di distanza le verità processuali rispetto a quel biennio drammatico non solo non soddisfano chi cerca e ama la verità e la giustizia, ma alimentano dubbi e sospetti perfino peggiori degli stessi delitti. Pare oramai pacificamente riconosciuto che il processo sulla strage di via d’Amelio, costruito sulle parole del “boss per caso” Scarantino, sia il risultato di un colossale depistaggio. Gli uomini incaricati di indagare sulle stragi, guidati da Arnaldo La Barbera, avrebbero costruito a tavolino una verità di comodo, avallata pure dalla Cassazione, funzionale a chissà a quali oscuri e indicibili disegni politici. Per trovare alcune possibili risposte converrebbe forse ricostruire le carriere di chi, da qualunque angolazione, ebbe modo di occuparsi allora di quelle tragiche vicende. Dubbi inquietanti, che sdegnano le coscienze degli uomini retti, calano oggi sulla figura delle ex Presidente della Repubblica Scalfaro che avrebbe avuto, secondo recenti ricostruzioni giornalistiche, un ruolo importante con riferimento alla cosiddetta “trattativa” intercorsa tra uomini delle istituzioni e uomini di Cosa nostra. L’incredibile decisione di non confermare il 41 bis a 300 pericolosissimi mafiosi nel 1993 pone una serie di legittimi interrogativi. Andiamo con ordine. Secondo notizie riportata con grande evidenza dalla stampa, Scalfaro ricevette nel febbraio del 1993 una lettera, carica di intrinseche minacce, da parte dei familiari dei detenuti mafiosi rinchiusi nelle carceri di massima sicurezza di Pianosa e dell’Asinara. L’ammorbidimento del trattamento carcerario, seconda questa ipotesi, potrebbe essere quindi diretta conseguenza di un “dialogo” tra i vertici dello Stato e mafiosi di rango. La stampa riporta poi una notizia importante secondo cui l’ex segretario generale della Presidenza della Repubblica, Gaetano Gifuni, avrebbe sostenuto che la scelta di sostituire l’ex responsabile del Dap Nicolò Amato con Adalberto Capriotti andrebbe non solo valutata alla luce di quel clima, ma sarebbe anche il risultato di una decisione presa da Scalfaro di concerto con Ciampi e con l’allora ministro di Giustizia Conso. Sarebbero questi alcuni degli spunti che farebbero intravedere gli elementi qualificanti della cosiddetta “pax mafiosa” che mise improvvisamente fine alle stragi. Rileggendo la storia di quegli anni,poi, mi tornano in mente le parole del perito informatico Gioacchino Genchi che, tempo fa, intervenendo su Radio Radicale, diede una chiave di lettura molto precisa sul significato da attribuire alle bombe che colpirono, nel 1993, le chiese romane di San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro. “La scelta di quelle due chiese”, spiegò Genchi agli increduli intervistatori, “non fu affatto casuale ma rappresentava un preciso e chiaro messaggio ai due presidenti delle Camere dell’epoca Giovanni Spadolini e Giorgio Napolitano”. Qualunque sia la verità, resta una certezza: molte pagine di quel tragico biennio devono essere ancora scritte.