Questa è la storia di Miriam Sermoneta, una giovane donna con un nome bellissimo dall’origine incerta, per alcuni egiziano per altri ebraico, di sicuro punto d’incontro tra oriente ed occidente. Miriàm/Maria è anche il nome della Madre, protagonista di uno dei più delicati romanzi dello scrittore partenopeo Erri De Luca. In questa storia però non c’è il lieto fine. Miriam ha deciso di recidere il cordone ombelicale che la legava, flebile, a questa grama esistenza. Miriam si è uccisa. Un colpo di pistola dritto al cuore ha cancellato in un sol istante sogni e delusioni. Il suo caso non ha conquistato le prime pagine dei giornali nazionali, ma non certo per pudore o rispetto, dei giornalisti, nel trattare l’ennesimo caso di suicidio. Miriam è stata oscurata, lasciata sola ancora una volta, perché la sua battaglia contro le ingiustizie della vita quotidiana e le sue idee facevano e fanno paura. La giovane guardia giurata denunciava le orribili condizioni di sfruttamento perpetrate dalla classe padronale, scriveva di uguaglianza ed il suo cruccio era quello di non capire il perché di tanta disumanità nei luoghi di lavoro. Spinta dalla disperazione aveva persino scritto una lettera al Presidente della Repubblica. Non è dato sapere se Napolitano abbia letto o meno quella lettera. Molto probabilmente no, magari qualche zelante funzionario del Quirinale ha provveduto a cestinarla. Una risposta, seppur formale, forse avrebbe cambiato il corso degli eventi, se non altro l’avrebbe fatta sentire meno sola. Dunque, rimedi subito Napolitano all’incresciosa mancanza e conferisca a Miriam la medaglia di Cavaliere del Lavoro alla memoria, sempre che tale titolo conservi ancora un valore etico dopo l’assegnazione a personaggi della bassezza di Tanzi. Ma torniamo all’impegno pubblico di Miriam. Nei social network parlava di solitudine nei posti di lavoro e nel privato chiedeva alla sua ditta di poter svolgere la sua attività in compagnia di altri colleghi. Richieste sempre disattese. Miriam non era una Rambo in gonnella e spesso le notti erano più buie del solito, i pensieri diventavano fitti e subentrava la paura e con essa il desiderio di scambiare qualche parola con una voce amica, consolatoria. E poi Miriam si batteva contro la stretta sul lavoro, fondando e partecipando attivamente al forum “Non toccate l’Art.18”. Se in questo Paese esiste ancora qualche Magistrato illuminato si impegni a dimostrare che non si tratta di “suicidi dettati dalla crisi” ma di “omicidi legalizzati”. Le banche, i padroni, i governi stanno facendo suicidare interi popoli. E la smettano una volta per tutte gli esperti, gli psicologi e i vari venditori di fumo di spacciare la crisi per un’opportunità. Per ritrovare la serenità bisogna rimuovere la crisi e chi la produce, bisogna fare l’opposto di quello che sta facendo l’attuale Governo. A cominciare dalla difesa dell’Art. 18 che non può essere barattato in cambio di un indennizzo economico. E poi bisogna creare le condizioni per una piena occupazione, e in attesa di questo concedere un reddito minimo garantito di cittadinanza (chissà perché Italia e Grecia, i paesi più colpiti dalla crisi, sono gli unici a non averlo). Ancora una volta gli uomini chiedono il pane e le rose, lavoro e dignità. Nessuno deve essere lasciato indietro e tutti devono essere liberi dalla paura. L’unica medicina per non soccombere è l’impegno, la lotta, la dedizione ad una causa, la ribellione verso un sistema sbagliato e crudele. La prossima volta che scenderemo in piazza portiamo con noi il dolce pensiero di Miriam, raccogliamone idealmente il testimone e facciamo nostro il suo monito: “Non voltate la faccia, non tappatevi le orecchie e non chiudete gli occhi”.
Il Vicemoralista
Emanuele Bellato (direttore della testata online “Il Popolo Veneto”)