Io sono 180.000 morti. Tanti, troppi anche per me. In 18 mesi. 10.000 morti al mese. Più di 300 ogni ventiquattrore. Provate a contarli, uno ad uno, nella mente, ad immaginarne l’età, il sesso, i volti, le espressioni, provateci, almeno per i primi dieci, poi continuate a contare…contate! Non riuscireste a farlo neanche con i morti di un solo giorno. Io invece li ho visti, tutti, in faccia. Uomini, donne, bambini. Bambini. Sotto un cielo infuocato, tesi come le loro mani, con il viso contro la terra rovente, intorno a capanne bruciate. Ho visto il loro ghigno, ho sentito la puzza dei loro corpi putrefatti, alterati, scomposti, rotti, disfatti, scassati.Il loro sangue a fiumi. Ho avvertito nell’aria incenerita l’odore disgustoso delle loro carcasse carbonizzate. Il vento acceso, incendiato mi porta le loro urla, le sento, forti, intense, battenti, ossessionanti, prolungate, martellanti. Gridano. Di terrore. Io sono 2 milioni e mezzo di persone colpite dalla guerra, di cui 1 milione e 400 mila hanno meno di 18 anni. Un popolo di ragazzi, giovani, innocenti, incolpevoli. Un milione e 700 mila sfollati, 210.000 rifugiati, in precari campi di accoglienza, allestiti in una regione desolata. Aridissima d’inverno e annegata sotto l’acqua nella stagione delle piogge d’estate. 800.000 anime che vagano, castigate e perdute per il Darfur. Io sono i grandi numeri. Un atroce conflitto irrazionale, tremendo, terribile. Le sue origini dissennate, stolte. Lontane. Ancora tensioni interetniche. Tribù africane a carattere stanziale, agro-pastorale e tribù nomadi di origine araba. Africani. Arabi. Uomini. In un ambiente sterile e devastato, percorso da vaghe piste desertiche, lotte e povertà, carestie di portata biblica. Bande di cammellieri armati, guerra civile, violazione dei diritti umani, tutto questo, io sono. Il segreto di uno stupro, il silenzio di una dignità violata, gli abusi ripetuti, una donna violentata, percossa, con bastoni o fruste, prima, dopo, obbligata. Aggredita. Umiliata, a volte davanti ai familiari. In stato di gravidanza. Militari che usano le armi per costringere alla violenza. Strumento di guerra. Il dolore di vittime spesso emarginate, perfino messe in prigione. Responsabili impuniti. Mi accompagno lentamente a siccità, terra sterile, mare di sabbia. Mi fermo inesorabile, osservo, poi procedo rapidamente, mi agito tra morbi e malattie, epidemie danzano al mio seguito, in un ballo macabro, funebre, contagioso. Seguendo la via dei traffici commerciali, i movimenti delle popolazioni locali, ecco che meningite e poliomielite, vibrano funeste nell’aria, spegnendo labili soffi vitali, falciando al rullo di battenti tamburi. Acque inquinate, vermi intestinali, dissenterie, zanzare, pungono, malaria. Basterebbero soluzioni reidratanti, antimalarici…basterebbero. Forse. Ma qui tutto è così instabile, come i confini di questo esteso e martoriato stato africano. Ed io sono anche gli attacchi efferati ai pochi e preziosi convogli umanitari. Quando si allungano le ombre e si avvicina la sera, ecco che inizia la mesta processione, di piccole anime dagli occhi larghi, verso pillole di vana tranquillità, lenta, indubbia direzione, campi, accoglienza. Con passo abbattuto, sfinito, si avvicinano adagio prendendo pian piano forma, schegge di vita: un mercato, frammento perduto, vistiti di donna dai colori accesi,forti, sgargianti, vistosi i grandi sorrisi, bianchi abiti d’uomo, in frantumi. E poi ancora pezzi di mango, odore di tabacco, topi secchi, datteri, zenzero, caffè. Bellissime donne adornate con collane di perle e bracciali d’argento. Lance in mano, poi ancora donne con carichi d’acqua. Musiche, suoni, odori, colori, parole. Sorrisi che corrono. Si spengono e ancora strade polverose, colline rocciose e secche, coloratissimi pappagalli, qualche scimmia, spari, scarni bovini, tristi, faranno saltare le migliaia di mine disseminate per ogni dove. Contrasto, stridore, dolore, tanto dolore. Lembi di terra, rossa, irrigata col sangue, tanto sangue, respiri affannati, rantolano, boccheggiano, soffocano,soli. Esseri a pezzi, essere a pezzi, come lo spirito di un bimbo che abbraccia un fucile, felicità mitragliata, occhi celati da un elmetto adeguatamente grande per non tradire una falsa, impossibile, goffa, dura apparenza. Io sono il ritratto di una madre che piange, di un bambino che soffre, la vostra abbondanza, la loro miseria, la vostra gioia, il loro dolore, la vostra avarizia, la loro larghezza, la vostra pochezza. Io sono un figura grottesca, tormentosa, angosciante, crudele, straziante, triste, amara, da evitare, da schivare. Una foto da guardare, sopportare, è dura, cancellare. A cena, la tavola preparata, a fine giornata, i capricci di tuo figlio, non guardare che è meglio. Ha la pancia piena, è un bimbo che fa pena. Deforme, irregolare, macilento, la grande testa, braccia e gambe scheletriche, le ossa e poi la pelle, spettro atterrito, sguardo assente, la mente corre forse per campi fioriti, ruscelli incantati, arcobaleni dorati,cieli sereni, senza scariche e fucilate, senza paura ne dolore, odio e ostilità, fame e carestia, guerre e malattie. Ma il corpo è straziato, da debolezza e denutrizione, piaghe e ferite, morbi e infezioni. Io sono le mosche che girano per il viso di un infante, l’acqua putrida e guasta che sventra un fanciullo, l’avvoltoio che attende paziente le carni di una dolce, sofferente creatura. Io sono la vostra vergogna, il vostro smarrimento, il vostro imbarazzo. Il vostro silenzio. Guardate sgomenti e smarriti fate silenzio. Sssss! …ed io sono. Il Sudan non è solamente il più grande Paese del continente africano; è anche la frontiera tra il mondo arabo e l’Africa nera. Dal giorno della loro indipendenza nel 1957, le popolazioni del Sudan hanno finora conosciuto appena 10 anni di pace: per il resto, il Paese è stato regolarmente scosso e attraversato da conflitti più o meno atroci. Sulla distanza a volte incolmabile tra il governo centrale arabo e islamico di Khartoum e le periferie sudanesi popolate da numerose etnie nere africane, hanno potuto incidere numerose variabili: economiche, politiche e religiose, che spesso hanno creato i presupposti per uno stato cronico di conflitto. In soli due anni, gli scontri tra ribelli e governativi e le violenze dei Janjaweed (bande armate di predoni arabi) hanno causato una crisi umanitaria di proporzioni sconcertanti.In Darfur, la regione occidentale semidesertica grande quanto la Francia, a ridosso dal Ciad, le ragioni di conflitto permanente che valgono per il resto del Sudan si sommano alla lotta per le aree verdi, che con il passare degli anni e l’avanzare della desertificazione sono andate sempre più restringendosi.Qui, le differenze tra arabi e non arabi, passano anche per le attività a cui questi due gruppi si dedicano: gli arabi, nomadi e prevalentemente dediti alla pastorizia, si spostano per la regione in cerca di pascoli secondo la stagione delle piogge o comunque il susseguirsi delle stagioni; i neri africani vivono di agricoltura e le loro rivendicazioni di proprietà su quelle terre affondano le radici nelle storia e nei sultanati indipendenti che per secoli si avvicendarono al potere, ultimo proprio quello dei Fur (Dar-fur sta ad indicare appunto “proprietà tribale” o “territorio dei Fur”), l’etnia nera principale dell’area insieme agli Zaghawa, ai Masalit e a un’altra decina di gruppi minori. La crisi del Darfur ha un legame piuttosto forte con le tormentate vicende del Sud. Khartoum è stata praticamente costretta dalla comunità internazionale a trovare un accordo con i ribelli dello Spla e del Sud Sudan a causa del petrolio che si trova nelle zone contese e in cui da anni operano aziende americane, indonesiane, cinesi e di altre nazionalità. Gli accordi siglati prevedono che a sei anni dalla firma della pace definitiva, il Sud tenga un referendum per decidere se diventare indipendente o no. Il governo sudanese rischia così di perdere il controllo diretto di una vasta fetta di territorio.Gli interessi petroliferi hanno consentito ai ribelli del Sud di fare il salto di qualità ottenendo fondi, armi e appoggi logistici e politici, ma niente vieta che chiunque possa strumentalizzare il malcontento dei neri africani del resto del Sudan per lottare contro Khartoum. Mentre si faceva la pace con il Sud, insomma, ad ovest si apriva un nuovo focolaio. Arabizzazione o meno, in Darfur, così come accadde per il Sud Sudan, sembrano pronti a entrare in gioco anche importanti interessi internazionali. Anche in Darfur, come per il Sud Sudan, qualcuno spiega l’attenzione mondiale con la chiave del petrolio: secondo alcuni questa regione semidesertica sarebbe ricca di giacimenti, secondo altri invece rivestirebbe un’importanza chiave per l’utilizzo dei giacimenti presenti a sud. Una delle ipotesi maggiormente accreditate è quella che vede alcuni gruppi di potere e di pressione interessati a creare un oleodotto che colleghi direttamente i pozzi del sud e centro Sudan (quelli contesi per vent’anni da Khartoum e Spla) con il gigantesco oleodotto, costruito dalla Banca Mondiale e dal Fondo monetario internazionale, che porta il greggio dai giacimenti del Ciad meridionale fino al porto di Kribi sulle coste atlantiche del Camerun per un totale di oltre mille chilometri di tubazioni. Io sono il genocidio, lo sterminio, l’eccidio, l’indifferenza e l’egoismo, la disumanità e la paura, la viltà e la codardia. Io sono tutto quello che si poteva fare e che non si è fatto, la cecità ottusa e la sordità dura, la finta assistenza e il soccorso negato, la falsa carità, la mancanza d’amore.Il potere, il petrolio, i soldi. Guardate ma non vedete, sentite ma non ascoltate, negate e non parlate. E’ buio ed è silenzio. “In quel momento i discepoli si avvicinarono a Gesù dicendo: << Chi dunque è il più grande nel regno dei cieli?>>. Allora Gesù chiamò a se un bambino, lo pose in mezzo a loro e disse: <<In verità vi dico: se non vi convertirete e diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli. Perciò chiunque diventerà piccolo come questo bambino, sarà il più grande nel regno dei cieli. E chi accoglie anche uno solo di questi bambini in nome mio, accoglie me>>”.
Mt. 18,1-5.
Domenico Latino
L’antimoralista