Mi scuso del disturbo. Vorrei fare una lunga premessa. Ma, come consiglia Proust, “la premessa è meglio saltarla”: e perciò sono costretto, obtorto collo, a ritornare sulla incresciosa vicenda che mi ha visto “protagonista” allorquando anni fa, per un articolo vergato per “Il Piave” (un periodico trevigiano), fui querelato per diffamazione “aggravata” a mezzo stampa (in solido con l’allora direttore di questa testata) da parte di un magistrato di sinistra genovese.
Ai suoi occhi, avevo osato criticarlo, con toni troppo accesi, per come aveva svolto il suo delicatissimo lavoro. Mal me ne incolse: fui travolto, come abbiamo cercato di narrare da queste libere colonne, da un uragano di violenza (legalizzata) impressionante, un’onda di tempesta devastante e catastrofica, al cui cospetto Katrina va declassata a frizzantino venticello che ci scompiglia le chiome.
Nelle udienze preliminari – ve ne furono più di una – presso il Tribunale di Padova, fui messo nella condizione di dover cercare, per il tramite dei miei legali Iannetti e Gasperini, un accordo transattivo e amichevole con la bellicosa controparte, rappresentata da un avvocato milanese.
Per i miei avvocati non avevo alternative al “calare le braghe” (e aprire il portafogli). L’indagine era stata condotta in modo tale da creare nei giudici l’impressione che l’offesa non si fosse integrata soltanto ed unicamente in un modesto articolino scritto per un periodico che, per quanto storico e illustre, viene pubblicato solo nel territorio della Marca trevigiana. E no: il pm patavino nelle cui mani era finito il mio “caso”, fatalità della stessa ideologia politica del genovese pm querelante (è un dato di fatto, comprovato e verificabile con il riscontro di pregresse elezioni dei vertici dell’Associazione nazionale magistrati – Anm), aveva infarcito il mio fascicolo “di reato” con tutta una messe di documenti che nulla a che vedere e a che fare avevano con l’articolo pubblicato dal “Piave”.
Alla fine quel faldone sembrava quello della strage alla stazione di Bologna. Com’era possibile? Ci doveva essere un errore, un grande equivoco, un fraintendimento per sbadataggine. Forse uno scambio, deprecabile ma risolvibile perché in buona fede.
A tutta prima avevo sorriso. Mi sbagliavo: i miei avveduti difensori – sempre più allarmati e paterni – guardandomi come si guarda il condannato che si avvia al patibolo, mi avevano tratto dall’ingenua beatitudine/inconsapevolezza di chi non ha a che fare sovente con la mostruosa, infernale macchina giudiziaria. “No, guarda che quel fascicolo è oggettivamente molto preoccupante Gianluca. Il pm ha recepito integralmente, al fine tattico di corroborare e dare sostegno alla sua accusa, la documentazione che proviene dal suo collega. Il quale, dal canto suo, ovviamente punta ad aggravare di molto la tua posizione. Come, ci chiedi? Ecco come: provando che anche il tuo pezzo non è un semplice articolo di un giornale locale, bensì va inquadrato e inscritto in una sorta di inaudito complotto nazionale per screditarlo, per colpirlo, per affossarlo e in ultima istanza per delegittimarlo come magistrato…”.
E sì: erano cazzi amari, per dirla con l’accademia della Crusca (noto Istituto nazionale per la salvaguardia e lo studio della lingua italiana).
Ero in ginocchio. Mi avevano colpito e distrutto, con la minaccia di farmi perdere la libertà per un delitto di pensiero. Per azzittirmi, ritorcendomi contro le mie stesse idee e il mio modo per manifestarle. Ma che fogna, ma che cloaca di Paese è mai quello che si spinge a tanto, con la forza delle sue istituzioni sedicenti democratiche?
Ero sequestrato dallo Stato e dovevo pagare un riscatto: spalle al muro, spremendo sangue dai muri, dovetti versare tredici mila euro al pm “rosso” più duemila al suo avvocato milanese.
Sì. La nostra giustizia è un organismo informe, deturpato, idrocefalo e mostruoso, partorito dalla politica. Ed è un male “assoluto”: ma “relativamente” alla gente per bene – la maggioranza -, a chi si impegna a rigare diritto e rispettare le leggi (per quanto inaccettabili e sbagliate), insomma alle persone “normali” che possono sbagliare ma che non delinquono “professionalmente” o intenzionalmente. Quelli, i criminali incalliti, con questa giustizia ci sguazzano. Io questo, non altro, volevo dire nell’articolo incriminato. Prendendo a prestito le parole laceranti della mamma di Maria Antonietta Multari: “Gli assassini sono tutelati, noi famiglie delle vittime siamo abbandonati dallo Stato. Luca Delfino era ascoltato nelle intercettazioni del telefono di mia figlia, che era sotto controllo. E quindi sono i giudici ad avergli dato il permesso di ammazzarla. Gli hanno dato solo 16 anni, me l’anno uccisa due volte”. Parole terribili, sconvolgenti. Da far tremare le vene ai polsi e che Rosa Tripodi – madre di Antonietta – ha ripetuto in diretta a Linea Gialla di Salvo Sottile su La 7 alle ore 23.15, secondo più secondo meno, martedì 10 settembre 2013. E infatti scommettiamo che Delfino tornerà presto libero, ovviamente sempre “nel nome del popolo italiano”?
Ma il diavolo fa le pentole e si dimentica i coperchi. Così è successa una cosa: molti mesi dopo la remissione di querela a seguito del corposo bonifico m’arriva a casa una cartella esattoriale.
Equitalia Giustizia, da Roma, mi ingiunge di pagare sollecitamente la somma di euro 61,23. Sbalordito, cerco le motivazioni del nuovo versamento (avevo già provveduto a pagare le mie spese di giudizio, oltre un anno prima, per la somma di euro 35,88). Isolo un dato nelle pieghe di carte astruse e incomprensibili come geroglifici: Provvedimento numero: 995 di tipo: sentenza, emesso in data 20/12/2011.
Non capisco: c’è una prassi di recupero delle spese di giudizio “a rate” e scoppio ritardato? A una così grande distanza temporale?
Per dipanare la matassa, tosto mi porto nella prestigiosa sede di Equitalia Padova. Prendo diligentemente il mio bel numerino, circondato da povera gente con un cappio al collo o anche un boccaglio alla bocca collegato tramite un elegante tubicino ad una bombola di gas a rotelle: Signore Iddio, scuoto la testa perplesso, la moda non sa più che cosa inventare…
Aspetto il mio turno, osservando come un entomologo le sventurate formichine che agitano febbrilmente e inutilmente le zampette, blaterando di rateizzazioni non concesse, cartelle pazze, contributi evasi per mancanza di soldi e miseria dilagante, interessi da usuraio applicati dallo Stato e concludendo, con qualche variante: “Me copo”. A quel punto, sono colto da una illuminazione seppur tardiva: mi sembra di intuire che quei cappi annodati, che fanno tanto collana etnica, e quelle bombole di gas, è vero un po’ ingombranti ma senza dubbio molto originali, non siano le ultime eccentriche, effimere trovate escogitate da una moda in crisi di creatività nel tempo della Crisi. Mannaggia, ho proprio equivocato: quei poveretti trattati alla stregua di squallidi, infingardi evasori da schiacciare come scarafaggi… volevano farla finita! Incredibile, non si finisce mai di imparare.
Altre stranezze: noto con la coda dell’occhio uno strano reparto di “Gastroenterologia Fiscale”. Chiedo lumi, incuriosito assai: “Ma allora non sai proprio niente! Troglodita e citrullo che non sei altro! Si paga un ticket e si viene assistiti. Seduta stante. E’ la legge della domanda e dell’offerta, pirla, qui le ulcere da reflusso gastrico vanno come il pane!”.
Invano mi rimescolo le tasche alla ricerca di un blister di Maalox o al limite di Buscopan. Niente. Ripiego allora sulla liquirizia Amarelli di Rossano Calabro, alza la pressione ma fa digerire anche i sassi: però lo fa dal lontano 1731, quindi non aveva previsto Equitalia! Sarà efficace lo stesso? Dubbio atroce, ma sgranocchio lo stesso i confettini neri della cara Pina (Amarelli).
Perse tre ore nell’attesa e con la lingua violacea per la liquirizia, che mi fa somigliare all’aiuto bibliotecario Berengario avvelenato ne “Il Nome della Rosa”, finalmente sono al cospetto della signora operatrice che mi osserva con un mix di commiserazione e fastidio: “Guardi che ha sbagliato Equitalia. Perché Equitalia Giustizia è tutta un’altra parrocchia: deve andare a Roma, dove c’è la sede centrale…Oppure deve telefonare, ecco qua i numeri…”.
Me ne vado da quel luogo di espiazione e dolore a capo chino, umiliato, mentre qualcuno mi porge premuroso un fazzoletto e qualcun altro, mi pare delle pompe funebri, fiutando il cliente mi offre pacchetti a prezzi di saldo “Bara & Esequie, due per tre”.
Dopodicché, solita Via Crucis telefonica: cerco il responsabile della mia pratica, indicato nome e cognome sulla cartella di Equitalia. Compongo il numero verde: 800178078. Mi risponde l’operatore numero 81076: dopo un enigmatico silenzio, la linea cade nel vuoto. In sottofondo, aleggiano le note eteree, struggenti dell’Aria sulla Quarta Corda di Johann Sebastian Bach. Da un momento all’altro mi aspetto niente niente che mi risponda direttamente Piero Angela: “Ma perché lei Versace non va come me alla scoperta affascinante e suggestiva del Cosmo e dell’Universo e invece si intestardisce a rompere i coglioni a chi, con fatica, cerca di non fare andare il baraccone della giustizia italiana?”. Confesso che non avrei saputo cosa ribattere, al forbito educatore.
Nel frattempo…”Le consigliamo di rimanere in attesa per non perdere la priorità acquisita…un operatore le risponderà prima possibile…”. Prima possibile…Seeeee: e però – come canta il Liga – “a che ora è / la fine del mondo”? La mia risposta arriverà senz’altro “dopo”, temo. Vado avanti per un’ora…”digita se vuoi essere ricontattato il numero e cancelletto…”.
E mentre il vaporoso cancelletto virtuale diventa un cancello ferro battuto che sta per crollare sulla mia crapa e quando, stremato, ormai ho perduto ogni speranza come “le anime prave” dell’Inferno – Canto III (versi 1-21), ecco salvifico come l’Arcangelo Gabriele “l’operatore 74019” mettere fine all’agonia (e a Quark) spiegandomi che loro – di Equitalia Giustizia -, non c’entrano nulla in questa storia: erano solo “gli esattori”: “Guardi, lei deve andare al Tribunale di Padova, dove c’è un ufficio crediti. Buona fortuna…”.
Scortato dagli avvocati, sono tornato sul luogo del delitto: il Tribunale. Dopo lunga ricerca, dal fascicolo della mia inchiesta, recuperato in archivio penale, spunta un foglietto. Risolutore. Ma che apre subito altri interrogativi inquietanti.
La faccio breve: su quel foglio di carta intestato ai Carabinieri di una compagnia che non cito per evidenti ragioni, c’erano scritti due numeri di cellulare. Numeri di telefonini che erano strati intercettati. E voi vi chiederete: embé? Io idem con patate: ma che c’entro scusate con le intercettazioni? Occhi pallati del cancelliere. Non sa cosa dire. I miei avvocati sono basiti. Cosa può essere accaduto? Possibile che siano state disposte dagli “inquirenti” nientemeno che intercettazioni telefoniche per un caso di “diffamazione …a mezzo stampa”?!? Ma come, biascico stranito, la prova non è “in re ipsa”: che capperi ti intercetti, dico io, se il presunto reato sta tutto bello paciarotto in un foglio di giornale? Mi manca l’aria. E mentre annaspo, crescono in me una rabbia che sfuma nel furore e il desiderio incoercibile di sapere la verità.
E allora finalmente ho (abbiamo) una base di partenza: due utenze di telefonia mobile. Col direttore del “Piave” ci mettiamo a fare il nostro lavoro di “cronisti investigativi”. Biz compone i numeri, si presenta correttamente a chi gli risponde e quindi pone domande per saperne di più e infine poterne riferire ai lettori. E’ il succo del nostro mestiere, o no?
E la verità viene a galla (insieme purtroppo a un’altra sostanza che proverbialmente galleggia sempre, anche se non credo che Archimede si riferisse specificatamente agli stronzi: ma io sì).
I due “soggetti” in questione apprendono da noi di essere stati oggetto di intercettazione: la cosa è, per così dire, “agli atti” (anche se sbagliati) e pertanto non violiamo il mitico “segreto istruttorio”. Buffonate buone per chi ci creda ancora, è più credibile Babbo Natale ed è più verosimile l’asino che vola. Le persone che fanno capo a quei numeri, come dire?, non paiono però del tutto sorprese e spiazzate dalla circostanza di essere stati sottoposti a intercettazione: è evidente che hanno avuto qualche rognetta giudiziaria, diretta o indiretta, anche se non sono certo tenuti a raccontarci i fatti loro e noi su questa soglia ci fermiamo.
Sempre i due “soggetti” intercettati, soprattutto negano qualsivoglia rapporto con la mia vicenda e questo se permettete è il nodo-chiave: “Non conosciamo il dottor Versace e non sappiamo niente del Piave e di un articolo su un magistrato”.
E quindi? Quindi mi affido alla interpellanza parlamentare con risposta scritta rivolta dal senatore Sergio Divina della Lega Nord al ministro guardasigilli Anna Maria Cancellieri. Se non è ancora impegnata al telefono con i Ligresti.
Ma gli interrogativi si affollano. Irrisolti. E non sono di poco conto.
E’ una cosa che può succedere che intercettazioni telefoniche fatte per certe indagini finiscano in altri fascicoli? Come può accadere? Ci sono precedenti? Ancora. Esistono le cosiddette “intercettazioni preventive”? Sapete cosa sono? Io non lo sapevo, me l’hanno spiegato persone informate sui fatti (e fattacci), dandomi di gomito: gli investigatori illustrandogli per sommi capi una inchiesta che “promette bene”, fanno firmare in bianco – diciamo “sulla fiducia” – da un sostituto procuratore l’ordine delle intercettazioni. Su quel foglio verranno segnalati i numeri intercettati. Solo “dopo” che le stesse saranno fatte. Diciamo, a rigore di normativa, entro le 48 ore successive. Perché è sempre “tutto nella piena lagalità”, intendiamoci! Ma se, alla fine dalla fiera delle intercettazioni, non si tirasse fuori un ragno dal buco?
Lo dico brutalmente: a quel punto, chi paga le spese? E con quale motivazione? Lo confesso, c’è uno scenario che mi atterrisce al solo pensiero. Questo: che vi sia una pratica sommersa e tollerata – ma, se esistesse, illegale – che redistribuisce i costi delle innumerevoli intercettazioni abortite. E’ noto che c’è un abuso spropositato di un, pur importante, strumento investigativo.
E’ fantagiustizia? Sono bislacche panzane? Me lo auguro. Ma voi mettereste la mano sul fuoco? Io no. Preferirei stravaccarmi sul divano e gustarmi l’intera collezione di Peppa Pig e invece nisba, intercettazioni e magistrati. Che palle.
Ma c’è un’altra domanda fastidiosa che mi ronza in testa: la linea di accusa tenuta nei miei confronti dal pm può avere concorso a creare l’humus che ha condotto all’errore clamoroso? Traduco: l’avere annesso e connesso alla mia pratica un lussureggiante florilegio documentale, secondo me forzato ed improprio, può essere stato il brodo di coltura dell’attribuzione del costo delle intercettazioni a chi scrive?
Interrogativi inquietanti, comunque li giri.
Nel frattempo, l’avvocato Iannetti presenta in Tribunale l’istanza di restituzione dei soldi ingiustamente pagati.
Finché una mattina squilla il telefono dello studio legale di mio padre.
Dall’altro capo del filo c’è un magistrato. “Quel” magistrato che agli albori del processo per diffamazione ha sostenuto l’accusa contro di me. “Quel” magistrato che, se non avessi pagato il risarcimento al suo collega pm genovese, avrebbe chiesto al giudice (anche lei una sua collega, naturalmente) che fossi condannato a molti anni di prigione per aver osato toccare “quei fili”. Ma in Italia si può criticare tutto e tutti, tranne i magistrati.
Ebbene, quel pm in una telefonata sconcertante, irrituale e forse perfino inopportuna, mi rivolgeva – a voce – per il tramite di mio padre (non al mio avvocato, visto che lui non lo è, formalmente) le sue scuse per l’”incidente”. Di fronte alla incredulità sbalordita di mio padre, il magistrato chiedeva di potergli inviare un fax. Così, dopo pochi minuti, ecco il classico bip-bip che segnalava l’incipiente arrivo della lettera. Intestata austeramente Procura della Repubblica presso il Tribunale di Padova.
“Gentile Sig. Versace, in relazione alla sua richiesta di rimborso trasmessa a questo Ufficio, le comunico che ho provveduto a sollecitare l’Ufficio Recupero Crediti del Tribunale di Padova a procedere allo sgravio ed ordine di rimborso ad Equitalia delle spese da lei pagate (e non dovute) in relazione al procedimento in epigrafe. L’ufficio interessato mi ha già comunicato di aver già comunicato ad Equitalia l’ordine. Colgo l’occasione per scusarmi, a nome dell’Ufficio di Procura, per il disguido (determinato da un’erronea indicazione del n. di procedimento nel decreto di pagamento) e del danno e disagio provocatole. L’Ufficio resta, comunque, a sua disposizione per ogni eventuale ulteriore chiarimento”.
Credo si debba dare atto a questo magistrato di avere fatto un passo desueto ed extra ordinem, rispetto all’Ultra Casta, che è la sua: chiedere scusa. Le sue scuse, è scontato dirlo, non risolvono un bel niente. Ma ugualmente costituiscono un inedito ed importante segnale, una revisione etica da non sottovalutare: si tratta, a ben guardare, di quel “passo indietro” che, chi detiene un potere di vita e di morte nei nostri confronti, non fa. Anche messo davanti ai suoi tragici errori.
Per dire, i magistrati che incarcerarono Enzo Tortora, portandolo alla tomba per il dolore, furono promossi. Promossi, non cacciati per indegnità e con ignominia dall’ordine giudiziario, capitoooooo?!?! Non solo: essi non ebbero neppure la decenza di chiedere scusa per tutto il male che avevano fatto. A Enzo soprattutto, ma anche a tutti i cittadini che, come noi, vorrebbero poter amare la giustizia giusta, venendone ricambiati.
E’ un buon punto di partenza, una giustizia capace di chiedere scusa. Amministrata da persone che sanno di poter fare del male al prossimo e cercano di comportarsi in modo rispettoso e scrupoloso.
Invece di questo passo, avremo anche i “Forconi giudiziari”: è un pronostico perfino facile come segnare a porta vuota. Anche se Flaiano pensa che “l’italiano è mosso da uno sfrenato bisogno di ingiustizia”.
Si può avere paura di qualcosa che è inevitabile, cioè l’ingiustizia travestita del suo contrario? No: io lo so sulla mia pelle.
Come so che il malvagio spesso ha il cuore di un angelo. E so che l’atto sovrumano del giudicare si confronta con questa enigmatica ed irriducibile complessità dell’umana natura, non con un uomo astratto e inesistente: ed è quindi la cosa più difficile del mondo.
Vedete, io avrei pagato volentieri: avrei offerto spontaneamente più di quella cifra miserabile, se le intercettazioni sbagliate avessero “intercettato” una nuova, giusta speranza comune. Quella di avere una giustizia che sa chiedere umilmente scusa per i suoi errori. E provare a rimediare, nei limiti del possibile. E noi, furibondi per la delusione dell’inganno e per la violenza legalizzata subita, proveremmo ad esercitarci in qualche palestra nell’arte del perdono. Il perdono vero, non quella macchietta da pagliacci a uso del circo dei media.
Perché la Patria, lo Stato e la Nazione se non vogliono farci vergognare di farne parte, come ci accade oggi, sanno che non c’è e non ci potrà mai essere un potere legittimo senza il bilanciamento di una potente responsabilità.
E di un senso dell’umanità che, solo, rende la nostra vita degna di essere vissuta.
Gianluca Versace
Giornalista e scrittore