Nell’articolo precedente (clicca per leggere) abbiamo confutato alcuni falsi miti riguardanti l’inflazione, tra cui il fatto che essa dipenda dalla quantità di moneta in circolazione e che costituisca sempre una gravosa tassa, in grado di erodere il potere d’acquisto dei cittadini. In questa sezione andremo invece a definire che cos’è l’inflazione e ad analizzare le sue implicazioni sociali e politiche.
Che cos’è l’inflazione
Come sostiene l’economista William Mitchell, “l’inflazione è il continuo aumento del livello dei prezzi. Ovvero, il livello dei prezzi deve essere crescente in ogni periodo in cui viene osservato. Perciò, se il livello dei prezzi o dei salari cresce del 10 per cento ogni mese, si ha un episodio inflazionistico. In questo, il tasso di inflazione sarebbe considerato stabile: una crescita costante nel periodo.
Se il livello dei prezzi crescesse del 10 per cento il primo mese, poi dell’11 per cento nel secondo mese, e del 12 per cento nel terzo mese e così via, si avrebbe un’accelerazione dell’inflazione. In alternativa, se il livello dei prezzi crescesse del 10 per cento il primo mese, 9 per cento il secondo mese eccetera, allora si avrebbe un’inflazione decrescente, o una decelerazione dell’inflazione.”
Una volta definita correttamente l’inflazione, dobbiamo capire quali sono i soggetti economici che la determinano e quali sono i meccanismi di fissazione dei prezzi.
Spesso si pensa che la formazione dei prezzi avvenga all’interno del mercato, tramite l’interazione impersonale della domanda e dell’offerta: la cosiddetta “mano invisibile” del mercato. In realtà, molte analisi empiriche mostrano che è piuttosto la “mano visibile” dei capitani d’industria e dei loro network amministrativi a fissare ed amministrare i prezzi nel mercato; e a determinare la direzione in cui si muoverà l’impresa.
Se così non fosse, e se il livello dei prezzi fosse determinato dal mercato e si aggiustasse continuamente tramite la legge della domanda e dell’offerta, dovremmo osservare delle continue variazioni dei prezzi stessi e quindi le imprese non avrebbero alcuna capacità decisionale su questi.
Gli studi di Ålvarez ed altri (2005), compiuti per la Banca Centrale Europea, dimostrano come le imprese abbiano la capacità di fissare i prezzi indipendentemente dalle condizioni della domanda e dell’offerta. Sulla base di sondaggi effettuati direttamente presso una serie di imprese in Europa, i ricercatori della BCE hanno concluso, fra le altre cose, che:
- le imprese in Europa variano i prezzi in maniera infrequente, mediamente circa una volta l’anno; i prezzi sono quindi sottoposti a rigidità;
- il grado di flessibilità dei prezzi varia da settore a settore, sia per quanto riguarda i prezzi al consumatore che al produttore;
- le imprese in Europa reagiscono velocemente agli incrementi dei costi e alle cadute della domanda, mentre reagiscono più lentamente alle diminuzioni dei costi e agli incrementi della domanda; le rigidità dei prezzi verso il basso sono molto minori rispetto alle rigidità verso l’alto;
- la maggior parte imprese fissa i prezzi applicando una percentuale di ricarico (mark-up) sui costi medi stimati; molte imprese poi preferiscono fissare i prezzi in base alle strategie dei concorrenti;
- le ragioni principali che portano alla rigidità dei prezzi in Europa sono: la presenza di contratti impliciti con i consumatori, ovvero il fatto che la stabilità dei prezzi è considerata determinante per mantenere la quota di mercato; di contratti espliciti che stabilizzano i prezzi per un dato periodo; di interazioni strategiche, accordi e dinamiche competitive fra imprese.
Le implicazioni per l’economia di un Paese
Tutto ciò ci fornisce un quadro delle dinamiche di crescita dei prezzi assai diverso dal meccanismo della “mano invisibile”. Innanzitutto, è chiaro che non esiste un’unica strada con cui le imprese fissano i prezzi: di conseguenza, l’effetto di qualsiasi manovra fiscale da parte di un governo non è prevedibile in maniera deterministica. La maggior parte dei prezzi nel settore industriale e dei servizi, infatti, viene fissata al di fuori dei meccanismi di mercato (non è così per le commodities, come ad esempio il petrolio, e per le aste). Il terrorismo mediatico circa l’evenienza che, a seguito di una maggiore spesa del governo, si debba andare a “fare la spesa con la carriola” si fonda perciò su basi assai fragili.
In secondo luogo, non vi è alcuna prova scientifica del legame causale tra inflazione e aumento della massa monetaria. La correlazione tra queste due variabili può esistere (anche se abbiamo visto che non è sempre così forte), ma è evidente che l’unico nesso causale possibile, come ha affermato l’economista Augusto Graziani, deceduto pochi giorni fa, è che sia la variazione dei prezzi a causare l’aumento della massa monetaria e non viceversa. La ragione è semplice: per poter acquistare gli stessi beni di ieri a prezzi più alti di oggi, sarà necessaria una maggiore quantità di moneta.
Ma allora, in caso di inflazione oggi, riusciranno i consumatori a potersi permettere l’acquisto degli stessi beni di ieri? Dipende dallo stato di salute dell’economia, che è misurabile attraverso quella che gli economisti definiscono domanda aggregata. Essa dipende, come insegna John Maynard Keynes, dal livello dei consumi privati, degli investimenti privati, della spesa pubblica e delle esportazioni nette; e attraverso l’interazione tra queste variabili definisce il livello complessivo dei redditi di un Paese.
L’economista Frederic S. Lee, per queste ragioni, afferma che “i prezzi non hanno una funzione allocativa delle risorse”. Piuttosto, è la gestione politica della domanda aggregata a far sì che il tenore di vita ed il potere d’acquisto dei cittadini restino stabili, crescano o diminuiscano: e perciò l’intervento del governo tramite la spesa pubblica e la tassazione a sostegno dell’occupazione e della domanda non è neutrale, come sostengono gli economisti di area neoclassica, ma ha un impatto significativo sull’economia di un Paese.
Il contesto sociale e politico
Dobbiamo chiederci, a questo punto, quali siano le principali determinanti socio-politiche dell’inflazione. Essa, come sostiene William Mitchell, può essere compresa all’interno di un quadro teorico generale nel quale i diversi soggetti che si spartiscono il Prodotto Interno Lordo e il reddito nazionale lottano per soddisfare le loro aspirazioni. In questo senso, è necessario calare l’inflazione nel contesto generale del conflitto distributivo, che è naturale nelle economie capitalistiche, tra i lavoratori che cercano di mantenere e conseguire salari reali più alti e le imprese che cercano di mantenere ed espandere la loro quota di profitti. In altre parole, situiamo il problema dell’inflazione come intrinseco nelle relazioni conflittuali tra lavoratori e capitale, che sono mediate dal governo. Questa mediazione varia nel corso della storia e in tempi recenti si è schierata a favore della protezione degli interessi del capitale, in particolare del capitale finanziario, a spesa delle aspirazioni del salario reale dei lavoratori.
Possiamo immaginare quindi la ricchezza prodotta dall’economia come una torta che deve essere spartita tra i vari soggetti. Come spiega l’economista Andrea Terzi nel libro La moneta, i fenomeni inflazionistici sono quella particolare situazione in cui ogni soggetto cerca di aumentare il valore della propria fetta di torta soffiandoci sopra.
Gli studi empirici, come quello già citato del team di economisti della BCE, mostrano infatti che le imprese sono particolarmente sensibili ai costi dei due principali fattori della produzione: le materie prime e il lavoro. Se uno di questi due fattori diviene più costoso nel tempo, le imprese possono decidere di difendere la propria “fetta di torta” (i propri profitti) aumentando il prezzo dei beni venduti.
La situazione italiana degli anni ‘70 è un esempio perfetto di questa forma di conflitto. Come descrive magistralmente Augusto Graziani, il conflitto capitale-lavoro veniva risolto dalle imprese soddisfando le richieste di salari più alti da parte dei lavoratori, ma al contempo aumentando i prezzi anche grazie alla possibilità di beneficiare delle svalutazioni del cambio per quanto riguarda le esportazioni.
Altri fattori che hanno un impatto significativo sulle dinamiche inflazionistiche riguardano il contesto competitivo e gli oneri finanziari. A seguito del capovolgimento della politica monetaria negli ‘80, con l’entrata dell’Italia nel Sistema Monetario Europeo, è proprio la seconda componente ad esercitare una pressione sui prezzi: le autorità monetarie italiane decidono infatti di mantenere alti i tassi d’interesse per attrarre capitali dall’estero, e ciò rende più oneroso l’indebitamento delle imprese italiane. Negli anni ‘80 non sono più quindi i salari ad esercitare la pressione inflazionistica prevalente, bensì i costi finanziari; assieme ai costi delle utenze energetiche, al tempo decise prevalentemente nell’ambito del settore pubblico, in quanto esistevano ancora i monopoli pubblici che sarebbero stati poi smantellati a partire dal 1992.
In questo contesto, l’inflazione non è più un processo desiderato dalle imprese italiane, ma temuto, anche a causa della fissazione del cambio che impedisce agli esportatori italiani di mantenere la competitività di prezzo. È a partire da questa fase storica che si originano gran parte dei timori sull’inflazione diffusi fra le classi dominanti del Paese; e, come abbiamo visto, questi si legano ai timori della grande finanza internazionale circa la conservazione del potere d’acquisto dei propri risparmi nel determinare l’unico mandato affidato negli anni ‘90 alla BCE, ovvero quello della stabilità dei prezzi.
Il discorso sulle cause, la natura e gli effetti dell’inflazione ci offre quindi un quadro composito in cui economia, politica e società sono inevitabilmente legate e in cui lo spazio per l’intervento pubblico non è minimo, ma è anzi necessario. Il meccanismo e la dinamica dei prezzi possono avere effetti nefasti sulla salute dell’economia se manca una gestione politica della domanda e dell’offerta, la quale deve concretizzarsi in interventi mirati del settore pubblico per sostenere l’occupazione e i redditi.
Giacomo Bracci e Francesco Ruggeri
Fonti
L. ALVAREZ et al. (2005), Sticky Prices in the Euro Area. A summary of new micro evidence, ECB Working Paper Series n° 563
A. GRAZIANI (1985), Cambiare tutto per non cambiare niente, Azimut n° 19
F. LEE (1999), Post Keynesian Price Theory, New York: Cambridge University Press
W. MITCHELL (2010), Modern Monetary Theory and inflation – Part 1, http://bilbo.economicoutlook.net/blog/?p=10554
W. MITCHELL (2013), Unemployment and inflation – Part 1, http://bilbo.economicoutlook.net/blog/?p=22646
A. TERZI (2002), La moneta, Bologna: Il Mulino
Ottimo articolo.Complimenti!
Sarebbe stato possibile scrivere (o riscrivere) le stesse cose con un linguaggio un po’ più terra-terra? Per alcuni passaggi ho dovuto oliare i neuroni oltre la misura che considero gradevole, per altri avrei dovuto chiedere aiuto a un “traduttore” (che non è nelle mie disponibilità, per cui le aree “oscure” son rimaste tali). Acquisire credibilità con un linguaggio gergale è senza dubbio una pratica che “paga” in termini di immagine, ma non aiuta certo la diffusione dei concetti che si intende veicolare.
Condivido l’osservazione di Ugo. Una delle funzioni di un blog o comunque di un articolo divulgativo deve essere quello di far comprendere concetti complessi, difficili e spesso noiosi a un maggior numero di persone possibile, rendendoli semplici e immediati. Per gli addetti ai lavori un articolo tecnico è ok, ma gli addetti ai lavori questi concetti dovrebbero già conoscerli;la vera sfida per ribaltare le terribili politiche economiche attuali è quella di far arrivare le nozioni di macroeconomia a un vasto pubblico.
Il lavoro divulgativo per demistificare il mito dell’austerità la fa già il Moralista. Il lavoro di approfondimento proposto da Giacomo e Francesco serve a rafforzare tecnicamente e scientificamente concetti già spiegati politicamente.
Quando discuto con mio padre di creazione di moneta e ritorno alla Lira, se ne esce sempre col fatto che poi la moneta si svaluterebbe e i prezzi aumenterebbero perchè pagheremmo di più le materie prime e l’energia importate (e vai di carriole per far la spesa). Io rispondo che quando l’inflazione era in doppia cifra, o durante la svalutazione del ’92, le macchine andavano sempre a benzina, ma mi rendo conto che è una risposta deduttiva e poco convincente. Possono il Moralista o i ragazzi di Epic dare una stringata e comprensibile spiegazione (magari con esempi) di come sono correlate inflazione e svalutazione con l’importazioni di tali beni primari? Scusate ma non sempre quando si capisce una cosa poi la si riesce a trasmettere efficacemente…
[…] A. TERZI (2002), La moneta, Bologna: Il Mulino (fonte: http://www.ilmoralista.it/2014/01/09/linflazione-un-fenomeno-sociale-e-politico/) […]