QUALE ALTERNATIVA AL FLAGELLO MONDIALISTA? I LIMITI DEL NAZIONALISMO NELL’ANALISI DI ALEKSANDR DUGIN
Nell’articolo pubblicato ieri e titolato “Il problema è l’universalismo americano” (clicca per leggere), abbiamo individuato il principale pericolo nella pretesa assolutistica degli Stati Uniti d’America di imporre dappertutto la propria scala delle priorità. Nel nome delle meraviglie della democrazia rappresentativa, di fatto svuotata di senso e contenuto perfino nel cuore dell’Europa schiava dei tecnocrati, gli americani hanno negli ultimi decenni bombardato ovunque allegramente, dall’Afghanistan all’Iraq, seminando tragedie vissute quasi fossero naturali effetti collaterali sul cammino del progresso. Abbiamo visto come l’Afghanistan, l’Iraq e la Libia somiglino oggi alle socialdemocrazie scandinave, terre risollevate dalla barbarie grazie alle operazioni belliche lanciate nel nome della libertà. Lo so, è umorismo macabro il mio, ma di alcune sconcezze è possibile discutere solo in termini paradossali. Come si fa a parlare seriamente di una guerra legittimata dalla recita di un tipo come Colin Powell che, nel bel mezzo di un consesso internazionale, sventola una boccettina ad uso di telecamera per provare la presenza delle armi di distruzione di massa in capo a Saddam? Queste stupidaggini possono essere raccontate seriamente solo dai giornalisti “responsabili”, a noi “populisti” invece ci fanno venire l’orticaria. Insomma, il relativismo religioso unito alla dimensione salvifica dei “diritti umani” dovrebbe prima o poi- nell’ottica dei moderni globalizzatori- “armonizzare” l’intero pianeta. Il tutto, naturalmente, condito dalla supremazia dei “mercati” e del “libero scambio”, dove tutti sono uguali ma i capitalisti finanziari sono più uguali degli altri, come i famosi maiali della “Fattoria degli animali” di George Orwell. Questa prospettiva, già in parte realizzata, fa orrore. Quali alternative? Intorno a questo interrogativo dovrebbe dipanarsi un dibattito serio, in grado di coinvolgere cioè i migliori pensatori del nostro tempo, genuinamente protesi verso l’individuazione di nuovi equilibri geopolitici. Non si può passare la vita intera a discutere dello 0,2% di aggiustamento dei conti che qualche kapò di Bruxelles pretende di imporci per non avviare la “procedura di infrazione contro l’Italia”. Pure queste piccinerie da mentecatti infingardi le lasciamo volentieri al vaglio dei “giornalisti seri”, quelli del “ci vuole rigore ma anche la crescita”. A noi il compito di prospettare soluzioni diverse, buone per scardinare il maledetto mondialismo massonico che ammorba la vita di intere generazioni di giovani, frustrati, impoveriti e neoschiavizzati. La risposta più semplice rispetto al quadro testé delineato potrebbe essere fornita da una riscoperta del nazionalismo quale naturale contraltare rispetto alla distopia globalizzante. In genere i soloni a pancia piena che scrivono sui giornali dei padroni attaccano un simile approccio sul presupposto che il “nazionalismo significa guerra”. Mi pare un argomento debole, considerato che una guerra non convenzionale anche ora è in atto, combattuta fra una piccola élite di miliardari che fucila e induce al suicidio per fame e stenti una stragrande maggioranza composta da cittadini storditi e inermi. La Ue non ha garantito la pace, ma semmai un’altra forma di guerra, certamente più ipocrita, dissimulata e meschina. In secondo luogo non è detto che il ritorno ai confini nazionali determini lo scoppio dei conflitti. Dal secondo dopoguerra fino al trattato di Maastricht non ricordo la consumazione di feroci battaglie intraeuropee, nonostante esistessero tante nazioni che non prendevano ordini dai vari Juncker, Draghi, Dijsselbloem e altri simili personaggi da circo equestre. Più che altro è lecito domandarsi quanto una singola nazione, per quanto forte e risoluta, possa resistere da sola remando contro il mostro mondialista. Questo dubbio, per esempio, alberga nella mente di Aleksandr Dugin (filosofo e politologo, teorizzatore dell’euroasiatismo) che nel libro intervista scritto con Alain De Benoist- “Eurasia, Vladimir Putin e la Grande Politica” (edizioni Controcorrente)- precisa come sia spesso lo stesso “impero americano” a favorire l’emergere di esasperati sciovinismi e localismi che impediscono la sedimentazione di una risposta di sistema in grado di mettere in discussione per davvero gli attuali rapporti di forza. Una preoccupazione più che legittima che vale la pena di approfondire.
Francesco Maria Toscano
29/03/2017
Certo che dalle urlogge con moni improbabili come golden eurasia che sembra na marca di mele del trentino a dugin nemo profeta non ti sei fatto mancare niente ahahahahahaha
https://www.youtube.com/watch?v=VKP7_huBOLY
E ancora non hai visto niente…https://www.youtube.com/watch?v=W2AjlKwXBjs
Come sei romantico
ahahahah
Un pezzo interessante. Davvero!