Il nuovo Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha fatto un buon discorso in Senato dimostrando di possedere una apprezzabile vena oratoria, il che non guasta dopo anni passati ad ascoltare le mortifere argomentazioni di personaggi cimiteriali come Mario Monti, Enrico Letta e Paolo Gentiloni, o le smorfie da taverna di Matteo Renzi da Firenze. Giuseppe Conte ha quindi già restituito con la sua sola presenza dignità all’istituzione che rappresenta, sfregiata da decenni di cattiva politica ridotta a sterile cabaret e bivacco per nullafacenti. In ogni caso il governo appena insediatosi, fatta eccezione per la già finiana Giulia Bongiorno e per il prezzomolino Enzo Moavero Milanese, merita fiducia. Nel caso in cui- ma non credo- il “cambiamento” tanto sbandierato dovesse rivelarsi solo un inutile esercizio retorico, il consenso di oggi si trasformerà giocoforza nella rabbia di domani, con tutte le conseguenze del caso. E’ bene sottolineare come la nascita del governo “gialloverde” non possa ridursi a “mero fatto interno”, denotando invece una ritrovata centralità dell’Italia nello scenario europeo e internazionale. Storicamente il nostro Paese, dal Rinascimento in avanti, è sempre stato culla di trasformazioni epocali in grado di cambiare in profondità il corso della storia e degli eventi. Con questo non intendo paragonare il professor Conte a Michelangelo, per carità, consiglio solo di non sottovalutare quanto sta accadendo, magari facendo lo sforzo di allargare la prospettiva per addivenire ad un quadro più limpido e preciso delle reali forze in campo e della vera posta in gioco. Nel momento in cui l’esecutivo fortemente voluto da Salvini e Di Maio vedeva la luce, infatti, si verificavano contestualmente altri due importanti eventi dal decisivo valore “geopolitico”: ovvero la cacciata dal “caudillo” Rajoy dalle stanze del potere spagnolo e la decisione da parte dell’amministrazione americana guidata da Donald Trump di applicare dazi alle esportazioni di acciaio e alluminio provenienti anche da Paesi europei. Qual è il minimo comune denominatore che tiene insieme queste tre apparentemente indipendenti circostanze? Cosa accomuna cioè i dazi americani, la crisi spagnola e l’avvento al potere dei “populisti” italiani? Semplice, trattasi di tre calci in culo assestati in rapida sequenza tutti all’indirizzo di “frau Merkel” e del suo attendente Mario Draghi, ultimi giapponesi posti a difesa di questa crepuscolare Unione Europea. I tedeschi, con il solito istinto ritorsivo che li contraddistingue (ma evocare Sant’Anna di Stazzema sarebbe in questo caso una forzatura fuori luogo), tentano probabilmente di resistere come possono, asserragliati dentro un bunker metaforico fatto di certezze che giorno dopo giorno inesorabilmente vacillano. “Casualmente” in concomitanza con la sfiducia a Rajoy (determinata anche dal voto contrario degli indipendentisti catalani), noto barboncino iberico della Merkel, la procura generale germanica ha chiesto l’estradizione di Charles Puigdemont, discusso personaggio finito recentemente al centro di un acceso braccio di ferro con le autorità di Madrid. In Italia è partito un fortissimo fuoco di fila per sbarrare il passo al “pericoloso sandinista” Paolo Savona, nobilitato persino di una scomunica ad personam emanata con bolla quirinalizia (poi superata con lo spostamento “tattico” dell’ “incallito sovversivo” ultraottantenne ). Contro gli Stati Uniti, nemico troppo grosso da spaventare digrignando i denti, Merkel invece si limita per ora a piagnucolare invocando l’intervento del Wto (e dopo magari pure della Fifa e dell’Uefa). Ho la vaga impressione che i teutonici, come al solito, si siano ficcati in un mare di guai. Mi auguro che l’Italia questa volta scelga di lasciarli al loro triste destino, senza farsi perciò ammaliare dalle ricorrenti e nefaste “sirene berlinesi”. Non ci hanno mai portato fortuna, d’altronde.
Francesco Maria Toscano
5/06/2018
Il Governo gialloverde sta cambiando moltissime cose. Anche il rapporto con Merkel e UE.