Nel silenzio colpevole dei grandi media si sta celebrando a Reggio Calabria un processo molto importante- denominato “‘ndrangheta stragista”- potenzialmente in grado di fare finalmente luce sulle dinamiche occulte che nel famigerato biennio ’92-’93 aprirono la strada ad una seconda Repubblica ora agonizzante. Dopo venticinque anni troppi misteri avvolgono ancora quella tragica stagione, lugubre espressione di una strategia lucida pronta a disarticolare la democrazia italiana per la gioia dei soliti potentati finanziari che non vedevano l’ora di mettere le mani sui nostri gioielli di Stato, da arraffare sulle ali di privatizzazioni banditesche accompagnate da una retorica fasulla che predicava (e predica tuttora) la presunta “insostenibilità” del nostro debito pubblico. Le stragi di Capaci e di via D’Amelio velocizzarono certamente il rapido accantonamento di una classe dirigente primo-repubblicana non più funzionale ai “tempi nuovi”, da appaltare a “tecnici illuminati” che avrebbero smantellato con ineffabile solerzia tutti i diritti sociali ed economici conquistati dalle classi medie e proletarie all’indomani del secondo conflitto mondiale. Le stragi sono state quindi la vera levatrice di una seconda Repubblica che si regge su “indicibili accordi” e “trasversali ricatti”. Ma una cosa è riuscire ad unire con le armi dello storico che conosce le regole della geopolitica fatti, avvenimenti e circostanze che sembrano apparentemente indipendenti gli uni dagli altri, altra cosa è riuscire su un piano prettamente processuale e giudiziario ad individuare e punire gli “architetti” di un così sottile e luciferino progetto che non può essere soltanto farina del sacco della “mafia militare ”. E’ difficile riconoscere infatti nell’eloquio sgrammaticato dei vari Riina e Provenzano quelle “menti raffinatissime” cui fece riferimento Giovanni Falcone in seguito al fallito attentato dell’Addaura. Bisogna quindi onorare la memoria e il sacrificio degli uomini e delle donne trucidati allora cercando con forza di fare emergere una verità che in tanti vorrebbero rimanesse sepolta per sempre nel buio delle coscienze di un manipolo di delinquenti ipocriti, cinici e senza scrupoli. A tal fine il processo “ndrangheta stragista”, istruito dal pubblico ministero Giuseppe Lombardo, può certamente contribuire alla definzione di un puzzle complesso e inquietante dove spesso i poteri più disparati si mischiano e si confondono. Nel corso dell’ultima udienza, ad esempio, il pentito di Alcamo Armando Palmieri ha spiegato come alcuni esponenti di non meglio precisati “servizi segreti” avessero avvicinato il boss trapanese Vincenzo Milazzo (poi ucciso) per chiedere aiuto in vista della realizzazione di una offensiva sanguinaria che avrebbe dovuto “destabilizzare lo Stato” (clicca per leggere). Palmieri, il cui racconto è preciso e dettagliato nell’indicare fatti, luoghi, nomi e circostanze, non è stato sfortunatamente in grado di riconoscere fisicamente gli uomini dei “servizi” in questione, conservando dei tratti somatici degli stessi solo uno sbiadito ricordo (d’altronde sono passati più di 25 anni). Ma prima che dare un volto agli “invisibili” che macchinarono allora, sarebbe forse opportuno e indispensabile approfondire il ruolo esercitato da esponenti pubblici e “visibili” dei servizi segreti, uomini come Arnaldo La Barbera (agente “Rutilius” del Sisde), già capo del pool “Falcone-Borsellino” che indirizzò le indagini sulla strage di via D’Amelio sulla risibile “pista Scarantino”. La Barbera ricevette tale incarico grazie ai “buoni uffici” di Luigi De Sena (clicca per leggere), importante esponente del Sisde divenuto infine senatore in quota Pd, inviato a Reggio Calabria nella qualità di “superprefetto” dopo il barbaro omicidio del consigliere regionale Franco Fortugno. E’ curioso sottolineare come De Sena, di cui parla anche lo scrittore Giovanni Fasanella nel suo libro “Il Puzzle Moro” con riferimento ad un suo viaggio in Inghilterra all’epoca delle indagini sul delitto dello statista democristiano Aldo Moro, avesse un autista- tale Vincenzo Di Blasi- poi condannato per favoreggiamento alla cosca di Brancaccio (dominata proprio dai fratelli Graviano ora imputati nel processo “ndrangheta stragista”). A proposito d’Inghilterra sarebbe forse poi utile riflettere pure sulle dichiarazioni rilasciate in passato dal pentito Francesco Di Carlo, “avvicinato” a suo dire anche lui da uomini dei “servizi” al tempo in cui stava rinchiuso in un carcere d’oltremanica. Di Carlo, sia detto per inciso, era cugino di quel Nino Gioè di cui ha parlato lungamente Palmieri nel corso dell’ultima udienza del processo “ndrangheta stragista”, noto boss di Altofonte ritrovato “impiccato” in circostanze misteriose nel carcere romano di Rebibbia nel Luglio del 1993. Mettere insieme e legare logicamente i tanti tasselli di questo spaventoso mosaico è l’unico modo per sperare di arrivare alla verità. Ma i tasselli sono tanti ed un solo articolo evidentemente non basta ad indicarli tutti…
Francesco Maria Toscano
18/06/2018
Troppi poteri forti, sia nazionali che internazionali, lavorano da tempi immemorabili alla caduta d’Italia.
tutte le volte che sento parlare di democrazia mi viene da ridere….