Proprio ieri ci interrogavamo sul concetto di violenza. Su come sia complicato delimitare con chiarezza il recinto nel quale relegarla per riconoscerla, finendo poi con il concludere che, in realtà, in molti cadono nella tentazione semplicistica di confondere tout court la violenza con l’illecita condotta. Casualmente, oggi, la cronaca ci propone un nuovo caso concreto che ci permette di approfondire ulteriormente l’argomento. Leggo dal sito online del quotidiano l’Adige: “Licenziata per aver accettato le mance. È accaduto ad una donna 63enne di Lavis che faceva le pulizie nei bagni dell’area di servizio A22 Paganella Est. Un lavoro umile ma dignitoso, che qualcuno premiava lasciando nelle mani della lavoratrice pochi centesimi…”. Avete capito bene, la povera lavoratrice è stata buttata in mezzo ad una strada perché ha accettato della mance nonostante l’espresso divieto imposto dal datore di lavoro di predisporre banchi o piattini che avessero come obiettivo quello di indurre i fruitori dei bagni a lasciare qualche spicciolo. A nulla sono valse le considerazioni della donna, evidentemente non contestate, circa l’atteggiamento assolutamente neutro dalla stessa assunto in relazione al libero e mai sollecitato atto di liberalità disposto occasionalmente dalla clientela. Niente. Per il padrone la gravità della condotta merita la punizione massima, e quindi l’addetta alle pulizie è stata licenziata per direttissima e senza possibilità di appello. Ora, la povera donna si è correttamente rivolta al giudice del lavoro per far sì che lo stesso certifichi la nullità di un licenziamento evidentemente senza giusta causa. Casi come questo impongono certamente una approfondita riflessione sull’importanza di norme che, come l’art. 18 dello statuto dei lavoratori, garantiscono un minimo di tutela alle parti più deboli, con buona pace del ministro piangente Fornero. Ma, a pensarci bene, il semplice ed eventuale ristabilimento da parte del giudice dello status quo ante non basta da solo per realizzare una giustizia piena e completa. Perché la condotta veramente violenta e moralmente inaccettabile messa in atto con arroganza dal titolare della società, che ha inteso colpire in maniera così dissennata un’umile lavoratrice, non potrà trovare certamente adeguata sanzione. Sarebbe il caso quindi che il legislatore, per casi come quello in oggetto, si interrogasse circa l’opportunità di prevedere sanzioni penali pesanti in capo agli autori di tali condotte, magari allargando la fattispecie penale dell’induzione al suicidio in modo da farvi rientrare casi che, come questo, sprigionano tanta inutile barbarie.
Francesco Maria Toscano