Il denaro è solo pubblico. E’ tecnicamente una convenzione attraverso la quale lo Stato, unico detentore del potere di emettere moneta e di creare ricchezza dal nulla, regola la vita economica di una comunità. Nessun uomo è ricco o povero di per sé. Lo è solo nella misura in cui esiste una autorità superiore che riconosce e legittima il valore della banconote che mette in circolazione. Nessuno nasce in natura proprietario di nulla. Il diritto di godere di alcuni beni in via esclusiva è anch’esso il risultato di una convenzione garantita da norme giuridiche cogenti che disciplinano l’accesso alla ricchezza. Per giustificare le crescenti e mostruose diseguaglianze economiche, i profeti del turbocapitalismo si appellano sovente ad un non meglio precisato concetto di merito. Un concetto illusorio ed abusato, foglia di fico di ingiustizie non altrimenti giustificabili. Che merito ha chi ha la fortuna di ereditare dal padre, ad esempio, fortune inestimabili? Che merito ha chi vive di rendite parassitarie garantite, magari, da considerevoli proprietà immobiliari? Nessuno, evidentemente. La possibilità di vivere una vita agiata anziché una di stenti e umiliazioni è sovente il risultato di una cinica lotteria. Fino all’avvento dell’Illuminismo, il diritto delle aristocrazie di vivere nel lusso, sfruttando il lavoro delle classi subalterne, era riconosciuto e imposto alla luce del sole. L’età dei lumi ribalta questa scellerato paradigma mettendo il lavoro al centro della scena. Tutti gli uomini divengono  uguali e hanno perciò diritto di costruire la loro fortuna attraverso il loro ingegno. Oggi la nostra Europa sta rapidamente riportando indietro le lancette della storia. I salari sono sempre più magri e il lavoro viene vissuto perlopiù come merce funzionale all’accumulo capitale di una classe padronale, nuova aristocrazia, che si è auto assegnata la proprietà esclusiva dei mezzi di produzione della ricchezza. Che merito hanno quei potentati economici che si arricchiscono a dismisura sulla scia di privatizzazioni selvagge di beni di pubblica utilità come le Ferrovie o le Autostrade? L’usurpazione di questi beni è il risultato di un arbitrio identico a quelli perpetrati in epoca medievale. Il socialismo delle origini, proprio in ossequio al concetto di merito individuale, metteva perfino in discussione il diritto di ereditare beni familiari. Ora, senza inseguire simili suggestioni,  sbagliate e pericolose, dobbiamo però finirla di dare ascolto a chi demonizza di continuo il concetto di ricchezza pubblica. Stella e Rizzo, ad esempio, benestanti eroi anticasta, sono i pretoriani di un ordine economico iniquo e classista. La loro furia demonizzante ogni intervento dell’autorità pubblica nella gestione dell’economia, apre la strada alle nuove aristocrazie private che vivono di rendite parassitarie, non disdegnando però alla bisogna di ricevere quei soldi pubblici condannati dagli alfieri anticasta. Il Corriere riceve infatti un mare di finanziamenti statali, soldi che servono anche a pagare i profumati stipendi di Stella e Rizzo. Noi paghiamo i nostri persecutori. Tutti quelli che invitano i cittadini a scagliarsi contro “gli sprechi pubblici” sono oggettivamente i difensori dell’ordine castale privato. Rivendicano cioè la supremazia di un’ economia senza intervento pubblico, che produce nuovi schiavi sottosalariati al servizio degli interessi di accumulo di chi con la violenza gestisce i processi economici produttivi e  finanziari. La libertà di iniziativa economica non va messa in discussione, così come  il diritto di ciascuno di progredire economicamente attraverso il lavoro. Sapendo però che il tutto deve avvenire dentro una cornice di regole pubbliche che impediscono storture e abusi. Se i padroni non riconoscono più  dignità al lavoro, allora, e solo allora, sarà il caso di cominciare  a mettere in discussione alla radice la legittimità dei loro beni privati.

    Francesco Maria Toscano

    Categorie: Editoriale

    3 Commenti

    1. alessandro scrive:

      Complimenti veramente un bell’articolo! Nelle etichette attribuite dalla faciloneria di politici e presunti pensatori, l’interventismo dello Stato nell’economia è spesso bollato come marxista o comunista. E’ ora che, specialmente gli italiani, si liberino di schemi ed etichette e si chiedano veramente quali poteri debba conservare lo Stato e quale e quanta libertà lasciare all’economia. La libera iniziativa di mercato, con il lavoro di famiglie ed imprese, contribuisce al progresso e al benessere dei cittadini. Uno stato che rinuncia a regolamentare il mercato, lasciando che questo si autoregoli da se come una mano invisibile (per dirla come Adam Smith) è destinato a fallire e ad essere subordinato e funzionale all’eccessivo liberalismo individualista. La crisi dei debiti sovrani in Europa ne è l’esempio. Lo Stato deve tutelare e promuovere la libertà economica, ma regolamentarla affinchè “la libertà di pochi non vada a comprimere quella dei molti”. Non è altresì da “comunista” la nazionalizzazione di settori strategici dell’economia, specialmente di quelli utili per assicurare al cittadino i beni e servizi essenziali: acqua, energia, trasporti, sanità, istruzione, assistenza sociale.
      Conservare la sovranità monetaria e il potere di stimolare l’economia in funzione anticiclica, attraverso il deficit spending è fondamentale per uno Stato. Con ciò sono comunque dalla parte di chi intende avviare una razionalizzazione della spesa pubblica, attraverso i tagli degli sprechi (compresi i contributi ai giornali) per finalizzare la spesa in investimenti produttivi.
      Il tema affrontato nell’articolo è molto attuale ed è uno degli elementi principali che distingue la “destra” dalla “sinistra.

    2. Andrea scrive:

      Ottimo articolo, da distrubuire il 1 Maggio nelle piazze.

      • Twin Astir scrive:

        Forse il danno peggiore che stanno procurando questi finti statisti alla guida dell’Europa è la supponenza e l’arroganza: loro pretendono di sapere come portare avanti la politica economica e monetaria senza ascoltare i consigli che possono arrivare gratuitamente da fior di economisti o da persone non stupide, ma semplicemente dotate di buon senso. I nostri leader non vogliono o fingono di non accorgersi che l’Europa, con il rigore ragioneristico imposto da Berlino, sta vivendo una storia straziante che la condurrà al suicidio, come ha detto Paul Krugman giorni fa (“E’ difficile evitare un senso di disperazione”). L’euro è una moneta tecnicamente fallita, mantenuta in vita con la flebo della BCE ed alcune comunità si stanno attrezzando localmente con monete virtuali basate sullo scambio di beni e di servizi: accade in Sardegna, con la moneta denominata “Sardex” e in Grecia con il “TEM”, senza soppiantare l’euro. Sono esperimenti basati anche sul baratto esentasse, che sembrano funzionare.

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      Francesco Maria Toscano, nato a Gioia Tauro il 28/05/1979 è giornalista pubblicista e avvocato. Ha scritto per Luigi Pellegrini Editore il saggio storico politico "Capolinea". Ha collaborato con la "Gazzetta del Sud" ed è opinionista politico per la trasmissione televisiva "Perfidia" in onda su Telespazio Calabria.

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