E’ spassosissimo leggere in questi giorni i pensosi commenti dei tanti scribacchini di regime che cercano in tutti i modi di creare una cornice di legalità intorno alle acrobazie quirinalizie sulla vicenda della trattativa Stato- mafia. Dal professor Carlo Federico Grosso in giù, in tanti hanno sentito il bisogno di giustificare le telefonate degne del Bagaglino intercorse tra Loris D’Ambrosio, consigliere di Napolitano, e il “turbato” Nicola Mancino. Questa patetica levata di scudi in difesa dell’indifendibile è comunque utile per fare uscire autonomamente allo scoperto tutte quelle figure, ovunque annidate, che evidentemente temono la ricerca della verità. Per capire eventuali cointeressenze, ai pm di Palermo probabilmente basterebbe cominciare a seguire questo fiume di ridicole e impacciate dichiarazioni che, involontariamente, allargano da sole il raggio e la portata dell’inchiesta. Tutti gli Azzeccagarbugli di questo mondo, per quanto uniti e solidali per ragioni intuibili, non possono infatti che disintegrarsi dinanzi alla lettura delle intercettazioni che, fortunatamente, sono così chiare da non meritare né esegesi né interpretazioni. Per la verità una delle intercettazioni pubblicate oggi sul Fatto Quotidiano, concernente un ermetico dialogo tra Nicola Mancino e il magistrato Nello Rossi, chiarissima non è. I due si parlano “sobriamente”, facendo anche riferimento ad un certo Lombardi che, ipotizza il giornalista, potrebbe essere individuato nella figura di un magistrato già finito nelle maglie dell’inchiesta P3. Tutti dialoghi leciti, per carità, che però aiutano meglio la definizione del contesto, e rendono meno enigmatica l’analisi della pubblica sconfessione dello stesso Nello Rossi ai danni dei colleghi Ingroia e Di Matteo, titolari giustappunto dell’inchiesta sulla trattativa. Il magistrato Nello Rossi inoltre, per completezza di analisi, è lo stesso che ha avviato, insieme al collega Achille Toro, poi finito al centro dell’inchiesta “Grandi Eventi”, una indagine contro Gioacchino Genchi, consulente informatico che, quando si dice la combinazione, da anni chiede verità per le povere vittime delle stragi e, tra l’altro, ha per primo spiegato il significato delle bombe nelle chiese romane di San Giovanni e San Giorgio del 1993. Insomma, nulla di quello che accade sorprende per davvero. Più seria l’argomentazione invece di chi, senza pateticamente provare ad arrampicarsi sugli specchi, prova a giustificare, non tanto i ridicoli tentativi di interferire sull’inchiesta palermitana, quanto l’essenza stessa dell’indagine, e cioè la trattativa. Giovanni Pellegrino ha scritto per l’Unità un pezzo imbarazzato da titolo “La trattativa Stato-mafia? Mossa per stroncare i corleonesi” (clicca per leggere). La tesi di Pellegrino, al netto degli slalom, è che la ragion di Stato non si processa nelle aule dei tribunali. E’ giusto ricordare come il nostro Paese ha sacrificato in passato la vita di uno statista del calibro di Aldo Moro, proprio sull’altare di quella inflessibilità richiesta all’epoca in primo luogo da Dc e Pci, partiti di riferimento di Mancino e Napolitano. Bisogna poi domandarsi se la ragion di Stato rappresenti una giustificazione sufficiente per i familiari del giudice Paolo Borsellino, vittima innocente di manovre che la sua anima integerrima non contemplava. La stessa domanda bisogna poi girarla a quei figli degli agenti di scorta massacrati dal tritolo, cresciuti senza padre per amore di un malinteso concetto di patria. Lo stesso interrogativo giratelo infine ai parenti delle vittime delle bombe in continente del 1993 ;chiedete pure a quella madre che ha perso una bimba di pochi mesi, e poi fateci sapere. Spiegate infine perché tutte quelle figure che sembrano avere avuto un ruolo nella trattativa, hanno ricoperto incarichi di prestigio anche nella seconda Repubblica, mentre gli altri politici scomparivano. Se non ci riuscite, almeno provateci. Il diritto dello Stato di pretendere per sé il monopolio della giustizia e dell’uso della forza è lecito solo nella misura in cui le istituzioni conservano l’etica della responsabilità. Altrimenti la giustizia diventa necessariamente arbitrio e qualunque processato si trasforma automaticamente in perseguitato. Questo è il momento di fare piena chiarezza. Tra un anno verrà infatti eletto il nuovo Presidente della Repubblica, e la pubblica opinione è chiamata a vigilare sulla scelta. La speranza è che non salga sul Colle più alto un uomo già protagonista della terribile stagione a cavallo tra la prima e la seconda Repubblica. Sarebbe un colpo decisivo e mortale per la tenuta della nostra fragile democrazia.
Francesco Maria Toscano
p.s. il titolo del pezzo è ispirato da un articolo pubblicato sul Fatto di oggi
Ripropongo la rilettura, alla luce di quello che è successo dopo, della lettera che il 17.07.2009 Nicola Mancino scrisse al Corriere della Sera per smentire le foroci accuse che Salvatore Borsellino, Fratello di Paolo da un po di tempo gli lanciava a cominciare dalal manifestazione di Piazza Farnese.
Per un certo tempo le accuse erano state ignorate, ma quando queste arrivarono al Corriere della Sera Mancino non poteva più tacere.
Ma non si accorse che la toppa era peggiore del buco.
LA LETTERA AL CORRIERE
Mancino: «Salvatore Borsellino
fa sempre una citazione monca»
«Se ci fosse stato l’incontro, perché avrei dovuto nasconderlo?»
ROMA – Egregio Direttore, nell’imminenza dell’anniversario della strage mafiosa di via D’Amelio nella quale caddero il magistrato Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta, mi trovo, mio malgrado, di nuovo messo sotto accusa da Salvatore Borsellino che, dopo un lungo silenzio di oltre dodici anni dall’accaduto, da qualche tempo crede di avere individuato una mia presunta responsabilità morale nell’attentato, che afferma ma non prova. Questa volta lo strumento usato per quella che non esito a denunciare come una aggressione personale, è una videointervista pubblicata oggi, senza che a me sia stata data l’opportunità di replicare, sul sito «Corriere.it».
Nella videointervista Salvatore Borsellino ripete senza modifiche le sue accuse. La ricostruzione dei fatti si ricava dall’interrogatorio che Gaspare Mutolo rese il 21 febbraio del 1996 nell’aula del processo celebrato a Caltanissetta per la strage di via D’Amelio. Senonchè Salvatore Borsellino cita sempre, e anche nel video riportato oggi dal Corriere.it, una sola parte di quella testimonianza, in cui il magistrato dice al pentito che deve allontanarsi per andare al Viminale. Sono in possesso delle pagine processuali. Sono un po’ lunghe. Cito, perciò, dal volume «L’agenda rossa di Paolo Borsellino», di Giuseppe Lo Bianco e Sandra Rizza, ed. Chiarelettere, pag. 146. «Sai, Gaspare, debbo smettere perché mi ha telefonato il ministro, ma…manco una mezz’oretta e vengo». Salvatore Borsellino cita continuamente questa frase, ma mai ricorda quel che Paolo Borsellino disse allo stesso Mutolo al suo ritorno dal Viminale. Se proseguiamo nella lettura de «L’agenda rossa», nella stessa pagina 146, possiamo leggere il seguito del racconto di Mutolo: «Quindi (Paolo Borsellino) manca qualche ora, quaranta minuti, cioè all’incirca un’ora, e mi ricordo che quando è venuto, è venuto tutto arrabbiato, agitato, preoccupato, ma che addirittura fumava così distrattamente che aveva due sigarette in mano. Io, insomma, non sapendo che cosa (…) Dottore, ma che cosa ha? E lui, molto preoccupato e serio, mi fa che viceversa del ministro, si è incontrato con il dott. Parisi e il dott. Contrada…»
Dunque, è lo stesso magistrato a non confermare l’incontro con il ministro, ed è la stessa fonte – Gaspare Mutolo – a testimoniarlo. Ma Salvatore Borsellino fa sempre una citazione monca, e dà a me del bugiardo. Se ci fosse stato l’incontro, perché avrei dovuto nasconderlo? Che cosa si sarebbero dovuti dire due persone che non avevano mai avuto rapporti tra di loro il primo giorno dell’insediamento di un ministro al Viminale? Che non si sarebbero dovute tenere trattative con la mafia? E chi le avrebbe tenute? Uno che proprio quel giorno era arrivato al Viminale per assumere la responsabilità di dirigere ordine e sicurezza pubblica? Via! Per ricondurre alla giusta dimensione l’atteggiamento di quel Ministro dell’Interno del governo Amato nei confronti della mafia, si ricostruiscano dalle cronache del tempo impegni, decisioni, azioni di contrasto contro la criminalità organizzata, applicazione dell’art. 41 bis, allestimento delle carceri di massima sicurezza dell’Asinara e di Pianosa, scioglimento di oltre 60 Consigli comunali inquinati dalla mafia e da altre organizzazioni malavitose: tutte iniziative portate avanti con fermezza ed intransigenza dal Ministro Mancino”.
Nicola Mancino
Vice Presidente
del Consiglio Superiore
della Magistratura
AL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
ON. GIORGIO NAPOLITANO
Palazzo del Quirinale
00100 ROMA
Gentile Presidente,
Faccio seguito alla lettera del 23 c.m. avendo nel frattempo avuto modo di esaminare la lettera di Mancino al Corriere della sera del 17 luglio 2009, nella quale riporta le parole di Mutolo per dimostrare che l’incontro non c’è stato, ma non la convocazione al Viminale :
” Sai Gaspare, debbo smettere perché mi ha telefonato il ministro, ma…..manco una mezzoretta e vengo “ Paolo Borsellino è tranquillo, sereno; forse pensa che il Ministro vuole conoscerlo di persona, domandargli come vanno le cose, dirgli di persona che apprezza lo sforzo che sta facendo in quello momento triste, agli in una parola la cosiddetta “ solidarietà”, fare sapere a tutti pubblicamente che lo Stato è con lui, dare un segnale alla mafia:
“ Quindi ( Paolo Borsellino) manca per qualche ora, quaranta minuti, cioè all’incirca un’ora, e mi ricordo quando è venuto, è venuto tutto arrabbiato agitato, preoccupato, ma che addirittura fumava così distrattamente che aveva due sigarette in mano. Io, insomma non sapendo cosa… Dottore, ma che cosa ha! E lui, molto preoccupato e serio, mi fa che viceversa del Ministro si è incontrato con il Dott. Parisi e il Dott Contrada“ .
Mancino conferma tutto il racconto di Mutolo in ogni suo dettaglio.
Il Ministro convoca il giudice al Viminale, ma al Viminale, nella sua stanza gli fa trovare, al posto suo, il Capo della polizia Parisi e il capo della questura di Palermo Contrada.
Cosa hanno detto Parisi e Contrada a Paolo Borsellino a nome del Ministro in quei quaranta minuti, lo hanno avvertito, lo hanno minacciato, lo hanno avvertito e minacciato insieme, gli hanno chiesto cosa dicevano i pentiti, di cosa stava dicendo Mutolo. Come si definisce la circostanza in cui con una telefonata si convoca un incontro e poi si manda un altro ? Perché Paolo Borsellino quando torna è così arrabbiato, agitato, preoccupato. Non so dove e quanto Paolo Borsellino ha detto: “ Sto vedendo la mafia in diretta”, Forse era così arrabbiato, agitato, preoccupato, Lui che la mafia la conosceva eccome, perché l’aveva vista in diretta nell’ufficio del Ministro degli Interni.
Contrada è stato condannato in via definitiva: dai tabulati telefonici è stato accertato che Contrada seppe dell’eccidio di via Amelio dopo ottanta secondi.
Ecco perché Nicola Mancino non può restare al suo posto, Lei non può essere rappresentato da Nicola Mancino al Consiglio Superiore della Magistratura, quella lettera è una confessione piena.
ricordo di oggi. Ma l’incontro è un fatto certo, perché riferito da chi accompagnò Borsellino sino all’anticamera del Ministro”.
Il 19 luglio ero a Palermo, in Via D’Amelio, con i ragazzi di Ammazzateci tutti, qualche minuto prima dell’ora fatidica in cui Paolo Borsellino con la sua scorta è saltato in aria, si è arrivato il procuratore Lari, anche Lui aveva la mano alzata con l’agenda Rossa, anche Lui è nel mirino, non lo lasci solo.
Nell’ultima intervista a Giorgio Bocca Carlo Alberto dalla Chiesa ha spiegato nei dettagli l’anatomia del delitti eccellenti:
IL CASO MATTARELLA
Senta generale, lei ed io abbiamo la stessa età e abbiamo visto, sia pure da ottiche diverse, le stesse vicende italiane, alcune prevedibili, altre assolutamente no. Per esempio che il figlio di Bernardo Mattarella venisse ucciso dalla Mafia. Mattarella junior è stato riempito di piombo mafioso. Cosa è successo, generale?
“E’ accaduto questo: che il figlio, certamente consapevole di qualche ombra avanzata nei confronti del padre, tutto ha fatto perché la sua attività politica e l’impegno del suo lavoro come pubblico amministratore fossero esenti da qualsiasi riserva. E quando lui ha dato chiara dimostrazione di questo suo intento, ha trovato il piombo della Mafia. Ho fatto ricerche su questo fatto nuovo: la Mafia che uccide i potenti, che alza il mirino ai signori del “palazzo”. Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato”.
Mi spieghi meglio.
“Il caso di Mattarella è ancora oscuro, si procede per ipotesi. Forse aveva intuito che qualche potere locale tendeva a prevaricare la linearità dell’amministrazione. Anche nella DC aveva più di un nemico. Ma l’esempio più chiaro è quello del procuratore Costa, che potrebbe essere la copia conforme del caso Coco”.
Lei dice che fra filosofia mafiosa e filosofia brigatista esistono affinità elettive?
“Direi di si. Costa diventa troppo pericoloso quando decide, contro la maggioranza della procura, di rinviare a giudizio gli Inzerillo e gli Spatola. Ma è isolato, dunque può essere ucciso, cancellato come un corpo estraneo. Così è stato per Coco: magistratura, opinione pubblica e anche voi garantisti eravate favorevoli al cambio fra Sossi e quelli della XXII ottobre. Coco disse no. E fu ammazzato”.
Non aspetti quaranta anni.
Mandi al Paese un segnale nuovo,forte, chiaro, inequivocabile: che lo Stato è forte e credibile e che sa sopportare la verità e non rinuncia a se stesso e non è spaventato. Mancino non può restare al suo posto. Il Paese questo si aspetta .
Con infinito affetto e stima, che Dio La guardi.
Mitt. Spinelli Francesco –
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