Non so se a voi capita mai, ma oggi mi sono perso nel labirinto della mia mente. “Il moralista è un personaggio complesso” recita l’autodescrizione presente in fondo alla pagina introduttiva del blog, “indeciso tra l’accettazione di una realtà indigeribile e il desiderio di contribuire alla creazione di una società capace di riscoprire sentimenti nobili”. Oggi il moralista ha deciso: la voglia dell’impegno pubblico uccide il sentimento compromissorio che spesso suggerisce malevolmente all’orecchio dei deboli di preferire una mediocre opportunità rispetto alla gloria della nobiltà. Vi siete mai chiesti perché questo blog si chiama “il moralista”? Oggi me lo sono chiesto da solo. Quando decisi di aprire questo blog mi venne in mente la possibilità di chiamarlo “il narratore”, ma il nome era già occupato. Dopo un paio di tentativi non fruttuosi mi convinsi a chiamarlo “il moralista”. Il moralista, una figura apparentemente negativa, sempre pronta a bacchettare i presunti vizi degli altri a difesa di uno stravagante e assolutizzato concetto di virtù. La virtù di un moralista vero, però, si perfeziona nella forma. Declinandosi prevalentemente come pregio apparente, freddo, strumentale, capace di impiccare il giusto e il buono sull’altare della correttezza formale e codificata. Il moralista teme più di ogni altra cosa la possibilità di perdere quello stravagante concetto di onorabilità che, nella sua folle realtà, gli darebbe le stellette per poter analizzare credibilmente fatti e personaggi. E cosa c’è di più importante per un moralista, spesso vittima di suggestioni grilline e travagliesche, di salvaguardare immacolato il suo casellario giudiziario per potersi dire da solo, come i farisei nel tempio: “sono giusto, non ho infranto la legge e ho rispettato tutte le prescrizioni”. E’ vera giustizia e nobiltà quella dei farisei? O rientra, più verosimilmente, nell’ampia casistica del “summum ius, summa inuria”? Gesù dice: “Chi ama il padre e la madre più di me, non è degno di me”. E dice pure: “Solo morendo il chicco produce molto frutto”. Sono presenti questi insegnamenti nel cuore tormentano di un moralista? Difficile rispondere. In ogni caso il moralista è qui seduto davanti a me, mi scruta, mi guarda con l’aria di chi sa come va il mondo, prova a convincermi che la qualità di qualsiasi azione si riconosca dalla furbizia esteriore ed espositiva che strumentalmente l’accompagna. Il moralista è un sepolcro imbiancato che si compiace della sua malefica capacità dissimulatrice. Non mi piace. Lo ascolto con fastidio. Non mangerà più seduto alla mia tavola.
Francesco Maria Toscano
caro collega moralista…
La mia personale esperienza in merito insegna che proprio tenendomelo sempre e nonostante tutto a tavola, il moralista, mi ha insegnato a criticare e cominciare a decostruire il moralista che era/è in me. E non solo a sbertucciare quelli di fuori: sia quelli che abusano del termine (moralista) a mo’ di insulto automatico (in genere perché totalmente amorali o solo furbetti); sia quelli che sono davvero moralisti “d’antan”, sepolcri imbiancati, guardoni e puttanieri che mettono a soqquadro un Paese per appore un velo sulle pudenda di una statua… dopo aver venduto l’appalto dei lavori per qualche euretto alla ditta della cosca emergente.
Ma credo che su questi ultimi ci siano dati sovrastimati: i primi sono molti di più.
C’è sempre bisogno dei moralisti. Almeno per prendersela con qualcuno, quando non siamo capaci di cambiare noi stessi. Oserei dire, di convertirci.