Si avvicinano le elezioni. Fra poco più di un mese i cittadini italiani saranno chiamati a esprimere la propria “preferenza” sui candidati che attraverso la Nobile Arte della Politica, organizzeranno la nostra vita per i prossimi anni. Le sigle dei partiti in lizza si fregiano largamente del termine libertà: popolo delle libertà, futuro e libertà, sinistra ecologia e libertà e piripì e parapà. C’è anche chi, nel partito democratico, richiama le libertà democratiche. L’uso del termine libertà, nella sostanza, così come annunciato nelle campagne elettorali dalle varie forze politiche in campo, è fuorviante e oratorio, un mero esercizio retorico e formale. Ricordo quanto il mio professore di “storia delle dottrine politiche” insisteva sul concetto di libertà. Da allora non smetto mai di ripassare quell’esame per riuscire a tenere la schiena dritta e riuscire a vedere fra la nebbia e il fumo diffuso dai partiti in anni di retorica ufficiale sui temi democrazia e libertà, come un flauto che fa piripì parapà. Basti pensare a cosa serva garantire la libertà di voto a tutti, se poi si è costretti a votare per i primi candidati della lista. E pensare che Berlusconi si è sempre definito un liberale, peccato che è durante un suo mandato che è stato partorito “il porcellum”. Tra un balletto e l’altro, premio di maggioranza sì, premio no, i nostri politici tutti hanno boicottato la riforma della legge elettorale e gli italiani non potranno esprimere liberamente la propria preferenza sul singolo candidato. E quindi ancora democrazia e libertà, piripì, parapà. Non c’è niente di più illiberale e antidemocratico di non poter scegliere i propri rappresentanti nelle istituzioni. Poiché la libertà è il bene più prezioso cui le donne e gli uomini a questo mondo aspirano, inviterei a riflettere su quest’astratto concetto.

    C’è una forma di libertà che è intesa come facoltà di compiere determinate azioni senza esservi costretti o senza esserne impediti da un soggetto o una comunità esterni (es: lo Stato). I politologi la definiscono “libertà liberale” ovvero “libertà come non impedimento”. La libertà può e deve essere limitata da vincoli esterni, se gli obblighi e i divieti sono accettati dall’individuo, in quanto esso stesso partecipa alla loro formazione. Ci si conforma a delle regole (es: leggi dello Stato) che ci si è dati liberamente. In questo caso  parliamo di “libertà democratica”. Non si può che concordare sul fatto che non si può essere sempre liberi di fare ciò che si vuole, altrimenti le pulsioni e gli egoismi umani ci porterebbero inevitabilmente al conflitto, all’anarchia e al disordine sociale. Quindi anche un liberale per poter essere nelle condizioni di esercitare le proprie aspirazioni individuali deve accettare delle regole, purché possa partecipare democraticamente a scriverle. E poi un vero liberale deve accettare che anche gli altri individui, al pari suo, non siano impediti nell’esercizio delle proprie libertà. E’ facile intuire come la libertà liberale viva in continua tensione con l’interventismo statale. Un liberale puro direbbe: “tutto ciò che non è proibito è lecito e quindi si può fare e tanto aumentano gli obblighi e divieti esterni tanto più è compressa la libertà individuale, quindi meno vincoli e regole devo rispettare e più sono libero”. Non a caso la libertà liberale “pura tout court” trova meglio soddisfazione in uno Stato liberale o in uno Stato minimo che fornisce i servizi essenziali al cittadino (es: sicurezza, ordine pubblico, giustizia, riscossione delle imposte, ecc.), il minor intervento possibile in ogni campo della vita sociale, economica, politica, lasciando all’iniziativa del singolo la possibilità di esprimere se stesso secondo le proprie capacità, attitudini e aspirazioni. E’ intuibile come un “liberale puro” che desideri questo Stato prediliga la “sfera privata”, meno regole possibili che la comprimano e meno tasse. Un liberale puro fino al midollo ritiene di essere l’unico artefice del proprio destino e che si possono raggiungere i propri obiettivi personali in base alle proprie attitudini e capacità senza interferenze dello Stato, ma anche senza che lo Stato lo aiuti o lo sostenga. Ed è qui la differenza sostanziale fra la libertà liberare e quella socialista. La sicurezza di se che vanta il “liberale puro” probabilmente deriva dal fatto che è in una condizione sociale ed economica serena o favorevole. Nella società c’è molta gente che versa in condizione di svantaggio rispetto ad altri, per motivi economici, familiari, di salute e nei casi più gravi di emarginazione sociale. Pertanto chi desidera la libertà socialista non rimane insensibile alle necessità e alle attese delle tante persone che vorrebbero realizzarsi al meglio in ogni campo della propria vita, pur trovandosi momentaneamente o permanentemente in una condizione di svantaggio. Da qui l’interventismo dello Stato socialista nella programmazione d’interventi volti a consentire anche al più debole l’esercizio effettivo di quelle libertà liberali, che formalmente sono proclamate uguali per tutti (aah ecco perché  generalmente si dice che la sinistra è dalla parte dei più deboli). E’ qui arriviamo al concetto di stato sociale (welfare) che serve anche come ammortizzatore sociale e per ridurre il divario fra le persone più svantaggiate e più deboli rispetto a quelle più fortunate.

    Sul conflitto fra libertà liberale e socialista in tanti ne hanno scritto interi tomi, consumato intere pagine di disquisizioni letterarie dottrinali e filosofiche e, in effetti, nel corso di questa profonda crisi economica e sociale dei nostri tempi è palpabile questa lacerante divisione conflittuale fra le due visioni politiche. Eppure le due libertà possono convivere. Si può discutere se prevale più l’anima liberale su quella socialista e viceversa, o in quali tempi e momenti storici si desideri che la politica sia un pizzico più socialista che liberale, ma non vedo un conflitto. Si può contestare al socialismo quando tende eccessivamente all’egualitarismo o a comprimere in modo dirigistico le libertà individuali e criticare il liberalismo quando tende troppo all’individualismo esasperato. E’ il ruolo dello Stato che deve bilanciare saggiamente le spinte legittime di realizzazione personale dell’individuo (che può rimanere sempre e comunque al centro dell’universo), rispetto all’interesse generale. Non credo sia una nota stonata una visione solidaristica secondi cui “si deve poter partire tutti dallo stesso livello, rimuovendo unicamente quegli ostacoli che si frappongono all’uguaglianza sostanziale dei cittadini, fermo restando che i più capaci e meritevoli devono poter andare più avanti e avere il successo cui legittimamente aspirano”. Non so dove ho sentito parlare di “Stato-Mamma”. Lo Stato come una brava Mamma, giusta allo stesso modo con tutti i suoi figli, ma mai una mamma chioccia.

    Ora si legga l’art. 3 della nostra costituzione:

    Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.

    È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

    I nostri lungimiranti padri costituenti, in particolare al secondo comma, hanno volutamente lasciato aperta la possibilità di realizzare “l’equilibrio di sapori” fra le istanze liberali e quelle sociali nella misura e nelle forme decise dalla Politica. Non mi voglio avventurare nel difficile compito di definire cosa è di destra e cosa è di sinistra, anche se generalmente nel comune dibattito politico sembra pacifico che la destra desideri di più uno stato liberale. L’esercizio che ritengo almeno più facile è individuare se un qualsiasi provvedimento o intervento statale penda più sulla sinistra. Non dico di essere in grado di etichettare un qualsiasi provvedimento come “di sinistra tout court”, ma almeno di intuire se un provvedimento vada verso sinistra, se insomma penda da quella parte. Basta porsi una domanda: “..questa legge riduce gli svantaggi delle persone più deboli rispetto a quelle più fortunate?”. Ad esempio, una maggiore redistribuzione del reddito può essere una delle grandi battaglie di questo secolo delle sinistre, atteso che la forbice fra coloro che diventano sempre più ricchi e quelli che diventano sempre più poveri è aumentata vertiginosamente negli ultimi decenni. La povertà non rende liberi al pari di coloro che dispongono dei mezzi economici. Vi ricordate qualche provvedimento di rilievo adottato in Italia dalla sinistra, negli ultimi anni, di riduzione della pressione fiscale a favore dei meno abbienti? Non mi stupirebbe che su questo versante la sinistra si facesse superare dalla destra (tentò qualcosa del genere l’accoppiata Berlusconi-Tremonti con provvedimenti quali aumento delle pensioni minime, introduzione della no tax area, social card, assolutamente insufficienti, al limite della beneficienza, ma è giusto per indicare il segno). Oppure vogliamo seguire l’esempio del socialista Hollande che propone una tassazione fuori misura per i molto ricchi del 75%? Vi sembra liberale? E a che serve? per pagare i costi del fiscal compact che ora il presidente francese dimentica di aver contestato in campagna elettorale? Questo è il caso di un eccesso di socialismo che tende all’egualitarismo, fondato sul populismo che solleva le frustrazioni mosse dall’invidia dei poveri contro i ricchi. Quindi bene ha fatto Gerarde Depardieu a farsi la residenza/resistenza in Belgio. Le contraddizioni della sinistra sono state denunciate in questo e altrettanti eccellenti blog: Bersani annuncia che non modificherà la recente riforma dell’articolo 18 (sposando la politica della moderazione salariale, pratica ormai diffusa in Europa per competere e scannarsi fra stati membri, scaricando il costo, neanche a dirlo, sui più deboli…).  Come definire ciò roba di sinistra? La sinistra che si bagna le mutande proprio sul lavoro? E ne vogliamo parlare con i proclami delle sinistre di tutta Europa? “…si deve proseguire con il rigore dei conti”… magari lasciando qualche spiccioletto per lo stato sociale? E della pacifica approvazione in Parlamento, da parte di PD e SEL, del principio del pareggio di bilancio (con modifica della costituzione) e del fiscal compact (come da desiderata della Signora Merkel)? E ora? Con quali soldi conservi lo stato sociale? Bersani quand’è che ci dici qualcosa di sinistra? E Vendola, col suo linguaggio forbito tutto estetica e niente fatti? Ce ne sarebbe anche per Berlusconi (della legge elettorale ho già detto), che si è sempre definito liberale, ma ha sempre bloccato ogni liberalizzazione dei servizi e delle professioni, che invece fece Bersani con le famose lenzuolate (anche se di limitata entità) al tempo in cui era Ministro dello sviluppo economico.  E che dire dei continui attacchi del Cavaliere ai comunisti statalisti, ma quando si è trattato di ridurre il ridondante apparato burocratico e politico italiano (leggi abolizione delle Provincie e taglio di costi della politica) o di spendere meglio (leggi poco efficiente spesa sanitaria specialmente durante il suo mandato) non mi pare che si sia dato molto da fare… almeno per liberare risorse per la riduzione delle tasse… no? Ma liberale de che?

    Quindi rivolgendomi ai partiti in lizza per le elezioni di febbraio, dico: “fatti, non p…piripì parapà.

    Alessandro Mura

    Categorie: Politica

    3 Commenti

    1. [...] Si avvicinano le elezioni. Fra poco più di un mese i cittadini italiani saranno chiamati a esprimere la propria “preferenza” sui candidati che attraverso la Nobile Arte della Politica, organizzeranno la nostra vita per i prossimi anni. Le sigle dei partiti in lizza si fregiano largamente del termine libertà: popolo Source: il Moralista [...]

    2. Balbillus scrive:

      La mia modesta opinione è che l’incontro fra stato liberale e stato socialista sia nell’incremento sostanziale della mobilità sociale.
      Questo come è intuitivo aumenterà le possibilità di “salita” ma ovviamente anche quelle di “discesa”.

      Il lavoratore accetterà la sua condizione di subalternità perché lo Stato considera parte integrante della sua mission concedere ai suoi figli la possibilità del miglioramento della propria condizione; la ruling class rinuncia alla certezza del mantenimento della rendita di posizione e in cambio ha la sicurezza di poter intraprendere la propria attività di imprenditore o professionista in un ambiente “possibile” evitando di essere sopraffatto dalla nuova super classe della finanza speculativa sregolata e di finire nel marasma sociale che sicuramente ci aspetta se continueremo con l’attuale cecità e stupidità.

      Nel giro di poche generazioni le differenze sociali saranno sdrammatizzate e per la convenienza di tutti nascerà un nuovo e autentico spirito di sussidiarietà e solidarietà.

      Bisogna intaccare le rendite di posizione, questo è inevitabile.

      • il Moralista scrive:

        Ragionamento interessante. Se volessi svilupparlo in apposito articolo, caro Balbillus, il Moralista sarebbe felice di pubblicarti.

        p.s. Siccome la qualità dei commenti sul blog è sempre di ottimo livello, invito tutti quelli che lo volessero ad inviare pezzi da pubblicare. Il Moralista, da blog personale, potrebbe felicemente trasformarsi in piattaforma a più voci. Buonanotte a tutti.

        Francesco

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