Nel lontano 1994, sulla macerie della vecchia partitocrazia, Silvio Berlusconi fece il suo trionfale ingresso in campo promettendo di ridisegnare l’Italia all’insegna di una rapida rivoluzione liberale. In un clima politico ancora scosso dalla recente caduta del Muro, mentre i comunisti di Occhetto tentavano senza successo di trasfigurarsi da sovietici in socialdemocratici in un batter d’occhio, il “cavalier patonza” riusciva a far sognare gli italiani promettendo meno tasse, riconoscimento del merito e abbattimento della burocrazia. Chi di voi non ricorda con commozione le promesse di semplificare il fisco prevedendo due sole aliquote Irpef rispettivamente al 33 e al 23%? Il mito dell’uomo di successo che, nonostante le ingerenze di una politica arraffona e di una burocrazia borbonica, era riuscito a fare grandi cose grazie alle sue indiscusse capacità imprenditoriali, suggestionò in profondità larga parte di un elettorato rimasto improvvisamente orfano e senza punti di riferimento. Che poi, in verità, pensare che l’ascesa di Berlusconi nell’olimpo degli dei fosse avvenuta senza o, addirittura, contro l’establishment di potere dell’epoca, è illusorio oltre che evidentemente falso. Berlusconi, che è certamente di suo un uomo di ingegno, deve gran parte del suo successo ai buoni uffici di Bettino Craxi. In particolare, quando nel 1984 alcuni pretori decisero di spegnere le televisioni del Biscione perché in contrasto con le disposizioni di legge vigenti, Craxi, allora Presidente del consiglio, si precipitò in Italia per risolvere i problemi dell’amico Silvio attraverso la rapida approvazione di un provvidenziale e specifico decreto (clicca per leggere). Non proprio un esempio paradigmatico di qual paradiso liberale tanto decantato, che imporrebbe invece una nettissima demarcazione tra libero mercato e intervento pubblico. Per uno strano e macabro scherzo del destino, poi, le stesse televisioni di Berlusconi, salvate da Craxi per decreto, finiranno con il seppellire anni dopo il già potente statista socialista, finito nella polvere all’inizio degli anni ’90 durante quella isteria collettiva passata alla storia con il nome pretenzioso di Mani Pulite (e tutto il resto sporco). Insomma Berlusconi, esempio vivente di intrecciate commistioni tra potere politico, economico e mediatico, rappresenta fisicamente l’esatto contrario di quel credo liberista che, nell’accezione dominante, viene ricondotto all’idea di Stato minimo teorizzata dal prof. Robert Nozick (clicca per leggere). Eppure gli italiani gli credettero (e in parte continuano a credergli). Facilitato nella sua opera di sostanziale mistificazione dalla circostanza fortuita di non avere competitori liberali autentici e di antico lignaggio, Berlusconi è ora infastidito dalla discesa in campo di un personaggio naif come Oscar Giannino, fondatore del movimento politico Fare per fermare il declino, desideroso di promettere agli italiani la realizzazione di quella tanto agognata rivoluzione liberale tradita dall’oramai crepuscolare regno di Arcore. Una piccola parentesi. A grandi linee, in paesi meno eccentrici del nostro, un liberista di destra si riconosce dal fatto che chiede meno tasse e meno spesa pubblica, mentre un socialista di sinistra (l’equivalente dei liberal nel mondo anglosassone) privilegia concetti come occupazione e qualità dello stato sociale. Chi vi scrive, convinto keynesiano e fautore di un più incisivo intervento dello Stato nell’economia, riconosce la legittimità democratica di entrambe le posizioni. Ciò non toglie, però, come questo schema di ragionamento, scolastico e sintetico, risulti del tutto inadeguato per comprendere il dramma che l’Europa sta vivendo. Sarebbe illusorio intendere la crisi dell’Europa di Maastricht quale semplice e pratico fallimento del mito turbo-liberista, inaugurato negli anni ’70 dai migliori interpreti della famigerata scuola di Chicago come Milton Fridman e George Stigler. La cinesizzazione dei popoli europei è il risultato di un progetto politico perverso e dissimulato che, in buona sostanza, prende il peggio delle diverse dottrine politiche per raggiungere un obiettivo inconfessabile. L’applicazione tout court delle ricette iperliberiste (meno tasse e meno spesa pubblica) non basterebbe per determinare inerzialmente la furia devastatrice in atto. La recessione dolosa che oggi paralizza l’Italia è infatti frutto del combinato disposto tra due fenomeni apparentemente antitetici: aumento delle tasse e contemporanea riduzione della spesa. Questo mix micidiale ha messo già in ginocchio le economie più deboli dell’eurozona, in attesa di flagellare quelle più robuste. Il governo Monti rappresenta la plastica rappresentazione di questo infame archetipo. Per demistificare la contemporaneità, quindi, non sono sufficienti le categorie di destra e sinistra, ma bisogna sforzarsi di capire le reali intenzioni di chi oggi guida questa Europa tecnocratica. Facciamo qualche esempio pratico. Il recepimento del Fiscal Compact impone all’Italia di ridurre il debito pubblico al 60% del pil in venti anni. In pratica significa che, chiunque governi, dovrà tagliare pressappoco 50 miliardi l’anno per i prossimi venti anni ( che saranno in realtà molti di più perché in recessione il pil crolla facendo automaticamente schizzare il debito verso l’alto). Nel giro di pochi anni, rebus sic stantibus, scomparirà sia la sanità che l’istruzione pubblica. L’approvazione in Costituzione del pareggio di bilancio, inoltre, impone ai paesi dell’area euro di non poter utilizzare la leva del deficit per finanziare progetti finalizzati all’occupazione e alla crescita economica. Questo significa che ogni anno le uscite finanziarie dello Stato dovranno eguagliare le entrate. E siccome alle condizione date per lo Stato sarà sempre più difficile garantire i servizi essenziali,ai diversi governanti non rimarrà altra opzione se non quella di tassare a morte cittadini e imprese, provocando giocoforza nuova recessione, calo dei consumi e disoccupazione. E’ un gioco al massacro architettato su un livello sovranazionale. Ora, stando così le cose, una persona perbene e in buona fede metterebbe queste storture al centro della propria proposta politica. Invece, a parte eccezioni rare e luminose, la maggior parte dei politicanti sulla scena si rifugia nella facile e trita demagogia della lotta agli sprechi. Non fa eccezione il buon Giannino che, dichiaratosi fedele ammiratore delle regole capestro imposte da Bruxelles, dice di voler comunque attuare in caso di vittoria quella famosa rivoluzione liberale tradita da Berlusconi. Mente spudoratamente. Senza cambiare le politiche di indirizzo di questo mostro di Unione Europea, qualunque intenzione di abbassare le tasse e rilanciare l’occupazione si rivelerà nei fatti impossibile e illusoria. Strano che un economista come Giannino, che tanto ama parlare numeri alla mano, non si renda conto di questa macroscopica ovvietà. O è completamente inadeguato o è in malafede, tertium non datur. Oggi, leggendo per caso il blog di Fabio Scacciavillani, ho forse trovato la giusta chiave di lettura per svelare l’arcano. Ho scoperto infatti che Scacciavillani, che cura una rubrica di satira economica sul Fatto Quotidiano, è uno dei candidati di Giannino per la Camera dei deputati (clicca per leggere). Il (poco) noto pensatore molisano, per chi non lo sapesse, ricopre l’incarico di “chief economist” presso il Fondo di investimento dell’Oman (clicca per leggere) , luogo dove notoriamente delle condizioni dei lavoratori e dei diritti umani non importa un fico secco a nessuno. Magari, fra qualche anno, dopo che l’Italia sarà diventata un deserto grazie alla supina accettazione di diktat provenienti da alcuni tecnocrati europei che offendono il decoro dell’umanità, vedremo sbarcare nel Belpaese la sagoma di qualche cammello con in groppa qualche sceicco, accompagnato da Giannino e Scacciavillani, pronto a comprare quel che resta di un apparato produttivo finalmente ridotto a brandelli. Per l’Europa prosegue quindi spedito il piano di cinesizzazione che, in Italia, potrebbe però vedere presto concretizzarsi una esotica variante: quella dell’omanizzazione disumanizzante.
Francesco Maria Toscano
7/02/2013
[...] Nel lontano 1994, sulla macerie della vecchia partitocrazia, Silvio Berlusconi fece il suo trionfale ingresso in campo promettendo di ridisegnare l’Italia all’insegna di una rapida rivoluzione liberale. In un clima politico ancora scosso dalla recente caduta del Muro, mentre i comunisti di Occhetto tentavano senza successo di trasfigurarsi da sovietici Source: il Moralista [...]
Ci risiamo. La crociata berlusconiana contro le tasse è ripartita, con tutto il suo corredo di rito: gli attacchi al governo Monti che le ha alzate e le puntuali promesse elettorali, dalla cancellazione dell’Imu prima casa alla riduzione di Irpef e Iva. Fino all’opzione zero-tasse per chi assume giovani. Insomma, si torna al passato, quando la destra minacciava scioperi fiscali, strizzava l’occhio agli evasori e annunciava operazioni “libera tutti”. Musica già sentita, partitura già letta. Ma questo déjà vu tributario finisce per mischiare le carte della memoria, per far comparire avvenimenti mai accaduti o per cancellare fatti realmente successi. Sembra quasi che prima di Monti abbia governato una maggioranza capace di ridurre o quanto meno tener ferma la pressione fiscale. In realtà, non è andata così. Anzi, a conti fatti, con le ultime manovre il governo Berlusconi-Tremonti ha finito per alzare la pressione fiscale esattamente il doppio di quello che ha fatto poi il suo successore.
Mi permetta di osservare che “… la burocrazia borbonica” non e’ corretto. L’Italia basa l’amministrazione dello stato sulla burocrazia sabauda che ha sostituito l’efficiente gestione amministrativa borbonica dopo la conquista del Regno delle Due Sicilie. Saluti
[...] partito fondato dallo studente fuori corso Oscar Giannino, “Fare per sembrare laureato” (clicca per leggere). Ma veniamo al merito dell’ultima fatica letteraria dello Scacciavillani tendente a sbeffeggiare [...]