Negli ultimi sette anni l’Italia è sprofondata in un clima di caos che non risparmia più nulla e nessuno. L’economia è in crisi, la disoccupazione galoppa, la politica è all’angolo, l’informazione avvertita come corrotta e servile mentre le istituzioni appaiono sempre meno credibili. Il declino rapido e drammatico del nostro Paese è coinciso con il settennato del Presidente Napolitano. Esiste un rapporto evidente di causa ed effetto che lega la crescente sofferenza di un’Italia piegata, ma viva, e le scelte di indirizzo politico del primo Presidente della repubblica di estrazione comunista. Inviterei tutti quelli che pensano e scrivono che le radici non contano più, che destra e sinistra sono categorie novecentesche, a rimettere in discussione le proprie sciocche sicumere proprio partendo dallo studio attento della svolta impressa da Napolitano all’altissima istituzione che ancora (speriamo per poco) rappresenta. Soltanto un uomo nato e cresciuto respirando atmosfere totalitarie e bolsceviche poteva interpretare il ruolo di presidente della Repubblica alla stregua di Giorgio Napolitano. A parte le continue invasioni di campo destinate spesso a interferire pesantemente con il naturale corso della giustizia (dall’inchiesta catanzarese Why Not allo scontro con la procura di Palermo, fino ad arrivare alle recentissime dichiarazioni di un giudice contabile trentino che avrebbe denunciato pressioni), Napolitano ha influenzato in maniera decisiva, e tutt’altro che positiva, il naturale corso della legislatura appena conclusasi. L’approdo del salvifico Monti sul trono d’Italia è opera e vanto di Re Giorgio. Accolto tra battimani scimmieschi di un circuito main-stream palesemente subalterno e corrotto, Monti ha utilizzato Palazzo Chigi per favorire gli interessi di alcuni grandi gruppi speculativi sovranazionali a spese della parte più povera della società italiana. La tanto decantata “responsabilità”, in concreto, si è tradotta in una sostanziale richiesta avanzata dalle élite alle masse povere al fine di indurle ad accettare un nuovo ordine sociale di tipo neoschiavile. Anche la sgradevole sensazione di essere entrati nei panni ingiusti di “osservati speciali” delle nazioni virtuose del nord è certamente da addebitarsi al latente provincialismo che ha contraddistinto i comportamenti delle nostre massime cariche. Anziché dare priorità alla condizione di estrema sofferenza che ha colpito intere categorie sociali, le nostre classi dirigenti hanno preferito scegliere un profilo di infantile esterofilia, per giunta cavalcato con lo stesso atteggiamento ridicolo e pacchiano dei fratelli Capone in “Totò, Peppino e la Malafemmina”, desiderosi di apparire poliglotti di fronte ad uno stupito vigile urbano milanese. E così ogni qual volta la Merkel chiedeva con insistenza all’Italia “di fare i compiti a casa”, non si trovava mai nessuno ai vertici dello Stato in grado di rispondere a tono. Sarebbe bastato far presente alla signora Merkel che il saldo primario dell’Italia è più virtuoso di quello della Germania e, perciò, nessuno aveva titolo per rimproverarci alcunché. Sarebbe stato corretto e dignitoso dichiarare di fronte all’Europa e al mondo che l’Italia non avrebbe accettato supinamente il ruolo di capro espiatorio di un’Europa che non funziona perché è costruita in maniera tale da non potere funzionare. Sarebbe bastato questo per rappresentare decorosamente l’unità e l’interesse della nazione. E invece abbiamo sentito per un anno blaterare le solite stucchevoli dichiarazioni di intenti, volte perlopiù a rassicurare i partner europei sul fatto che l’Italia avrebbe fatto la sua parte, mettendosi quindi il cilicio come la Binetti per ingraziarsi il favore del dio-spread. Queste macroscopiche incongruenze, già accettate e riconosciute come vere dalla gran parte cittadini italiani, provano ad essere pateticamente coperte da un circuito mediatico che, durante il settennato di Napolitano, ha raggiunto un livello di piaggeria e autocensura degno di un paese del terzo mondo. Un metallico, continuo e acritico coro di plauso ha accompagnato ogni gesto di questo Presidente della Repubblica, creando un clima paradossale capace di esaltare le eccezionali virtù di guida del pilota proprio mentre la macchina va a sbattere a velocità più che sostenuta. Insomma, non so se l’attuale Parlamento sarà in grado di esprimere un governo, non so se il cortocircuito politica-giustizia possa presto acuirsi, ma so con certezza che il 15 maggio scade il settennato di quello che verrà certamente ricordato per secoli come il peggior Presidente della Repubblica di tutti i tempi. E, a parte una improbabile rielezione caldeggiata dal chierico De Bortoli, senza Napolitano sul Colle l’Italia potrà ripartire per davvero. Basta questo per guardar al futuro con motivato ottimismo.
Francesco Maria Toscano
13/03/2013
Togliersi dai piedi il napo è senza dubbio un traguardo che considero io stesso ambito e gradito. Non sarei però tanto ottimista, perché è noto che “morto un papa se ne fa un altro”. Spesso peggiore.