Nel 2006 il grande attore e regista Clint Eastwood realizzò due film sulla stessa vicenda, la battaglia di Iwo Jima del 1945, il primo “Flags of our fathers” visto dalla prospettiva americana, e il secondo, uscito pochi mesi dopo, “Lettere da Iwo Jima” visto dalla parte dei soldati giapponesi. Questa premessa per trattare il caso Corea del Nord. Ebbene, in questi giorni, noi occidentali stiamo vedendo solo la prima parte della pellicola, ed in fondo ci accontentiamo della visione pre-confezionata. Il regime di Pyongyang viene descritto come pittoresco ma allo stesso tempo pericoloso. I telegiornali mandano in onda le immagini dei loro omologhi mezzobusti orientali infervorati dalla propaganda politica, delle manifestazioni oceaniche, delle parate e degli arsenali militari. La Corea del Nord è anche questo, ma di sicuro non solo questo. Per visionare la seconda parte della pellicola, ho letto il libro “Pyonyang, l’altra Corea” (Mimesis, 2012) di Davide Rossi. Si tratta di un diario di viaggio in cui l’autore descrive la società coreana, la loro cultura, la politica e l’architettura. Man mano che leggevo le pagine le distanze sembravano quasi accorciarsi, e la scoperta, forse la più banale ma anche la più vera, è che tutti appartiamo alla medesima razza umana. Non esistono “stati canaglia” o “regni oscuri del male”. Esistono invece altri modelli sociali, e quello della Corea del Nord è un modello socialista, con tutti i suoi limiti e le sue virtù. Un limite è sicuramente quello di trascurare i diritti umani. La virtù sta nel valorizzare i diritti sociali; nella Repubblica Popolare e Democratica di Corea tutti hanno la certezza che l’istruzione, la salute, il lavoro, la casa, la pensione (a 55 anni per le donne e 60 per gli uomini), il diritto al trasporto e alla mobilità sono garantiti per tutti. Vale – ricorda Rossi – il principio marxiano che chiede a ciascuno secondo le proprie possibilità, per dare a ciascuno secondo le proprie necessità. Tutto questo nonostante il territorio, grande come la Grecia ma con il doppio della popolazione, 25 milioni di cittadini, offra poche opportunità nel settore dell’agricoltura per via di un terreno poco fertile, pietroso ed esposto ai venti siberiani. Poi, cosa non secondaria, è in vigore un silenzioso embargo internazionale, peggiore – annota l’autore – di quello contro Cuba. Inoltre le ferite della guerra, nei primi anni ’50 la capitale fu rasa al suolo dagli Stati Uniti, non si vedono più grazie alla rapida ricostruzione ma si sentono ancora. Al contrario nella “democratica” Corea del Sud si rispettano i diritti umani, meno quelli sociali: c’è infatti la piaga della disoccupazione e di tutte quelle malattie “moderne” tipiche del mondo capitalista, causate dagli elevati livelli di produzione. La libertà, per come siamo abituati ad intenderla noi, non se la passa bene nemmeno in Corea del Sud: i partiti di sinistra sono formalmente vietati, i sindacati hanno pochi margini di azione, la stampa è in mano a pochi gruppi di potere e la polizia mostra spesso il suo volto severo. Tornando all’altra Corea, quella popolare, l’aspetto più lontano dalla nostra sensibilità è certamente quello del culto della personalità, plurimo e familiarmente plurigenerazionale. La devozione verso i padri della patria: i due kim, è quasi religiosa, forse proprio per sopperire – ipotizza Rossi – l’assenza di riferimenti religiosi in una società laicista che però, in linea con la tradizione, affonda le sue radici nel confucianesimo. La Corea Popolare è un paese da scoprire e le questioni di carattere geopolitico sono molto più complesse di quello che vogliono farci credere. C’è il ruolo della Cina interessata a mantenere un rapporto privilegiato con la Corea del Nord ma che allo stesso tempo non vuole rinunciare ai rapporti commerciali con quella del Sud, poi ci sono gli Stati Uniti che con il pretesto del pericolo nucleare vogliono giustificare la permanenza militare in Giappone e della sua flotta nel Pacifico e possibilmente far rientrare tutta la Corea nella sua orbita per poter controllare da vicino il dragone cinese. Basta poco per innescare la scintilla. Già nel 2010 con l’affondamento della corvetta sudcoreana Cheonan (che provocò la morte di 46 marinai) di cui furono accusati i nordcoreani la situazione stava per precipitare. Poi gli esperti stabilirono che il siluro era di fabbricazione tedesca. Si trattò dunque di strategia della tensione? A questo interrogativo non ha ancora risposto nessuno. Una cosa è certa, finora la Corea Popolare non ha mai aggredito nessuno e lo stesso poderoso esercito è impiegato in operazioni di pubblica utilità. Al giovane Kim Jong-un, a Barack Obama e a tutti i potenti della terra dovrebbe giungere il messaggio di pace lanciato da Fidel Castro, riportato nel libro “L’inverno nucleare. Riflessioni sui rischi di una guerra atomica” (Edizioni Nemesis, 2012). Ecco l’appello: “Per la prima volta, la specie umana, in un mondo globalizzato e pieno di contraddizioni, ha creato la capacità di distruggere se stessa. Si aggiungano a questo armi di una crudeltà senza precedenti, come le armi batteriologiche e chimiche, quelle al napalm e al fosforo bianco, che sono utilizzate contro la popolazione civile e godono d’impunità totale, quelle elettromagnetiche e altre forme di sterminio. Nessun luogo nelle profondità della terra e dei mari sarebbe fuori dalla portata degli attuali strumenti di guerra. E’ noto che nello stesso modo sono state create decine di migliaia di armi nucleari anche portatili. Il maggior pericolo deriva dalle scelte dei leader che hanno la facoltà di decidere, dal momento che l’errore e la pazzia, spesso presenti nella natura umana, possono portare ad incredibili catastrofi”. Una nuova guerra sarebbe quindi senza ritorno. Comprendere le ragioni dell’altro, superare le diffidenze, i pregiudizi, informarsi sono tutti primi passi in difesa della pace.
Emanuele Bellato
12/04/2013
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