La sentenza sul caso della morte di Stefano Cucchi mi ha profondamente indignato. Un ragazzo, fermato perché trovato in possesso di hascisc e cocaina, è morto in una stanza di ospedale in seguito ad un ricovero figlio di evidenti maltrattamenti e percosse. I giudici del Tribunale di Roma hanno assolto tutti gli imputati, compresi gli agenti sospettati del barbaro pestaggio, tranne alcuni medici condannati a pene lievissime. Ascoltando la sentenza si potrebbe cioè sospettare che Cucchi sia morto in seguito ad una tonsillite curata male. Da Pinelli a Cucchi, passando per la scuola Diaz e Federico Aldrovandi, si è instaurata una prassi tutta italiana secondo cui l’omicidio commesso al riparo di una divisa non è mai un delitto fino in fondo. Al massimo, quando proprio non si può negare l’evidenza più lampante, gli assassini sanguinari protagonisti di massacri nel nome dello Stato rischiano di finire processati per reati ridicoli rispetto alla gravità della condotta posta in essere. Anziché finire all’ergastolo, ad esempio, gli agenti che hanno ucciso a botte l’adolescente Federico Aldrovandi sono stati condannati in via definitiva a pene che oscillano tra i tre e i quattro anni di reclusione perché ritenuti responsabili soltanto di omicidio colposo. Secondo l’accusa i poliziotti hanno certamente massacrato di botte Aldrovandi fino ad ucciderlo ma, evidentemente, l’avrebbero colpito con una buona dose di negligenza, imperizia e imprudenza, elementi essenziali per rilevare l’elemento psicologico della colpa. Bisognerebbe perciò istituire in tutte le scuole d’Italia dei corsi finalizzati all’insegnamento del pestaggio selvaggio ma politicamente corretto. Anche in passato, pur di scagionare alcuni intoccabili carnefici, in molti volarono con la fantasia. Basti pensare alla teoria che, per giustificare la caduta mortale dell’anarchico Giuseppe Pinelli, sfracellatosi al suolo dal quarto piano di una questura dopo avere passato ore a difendersi da accuse false e inconsistenti, avallò l’ipotesi del “malore attivo”. Vivere in uno Stato di diritto presuppone la tutela della vita tanto del ricco quanto del povero, del potente come del disgraziato. In Italia si riaffaccia invece lo spettro di un fascismo di ritorno, già risorto sulle ceneri di quella democrazia liberale conquistata dalle avanguardie massonico-progressiste del passato. Lo Stato è legittimato nell’uso esclusivo dell’utilizzo della forza soltanto se esercita le prerogative affidategli con giustizia, equità, decoro e imparzialità. Quando il pubblico potere, anziché affermare in concreto preziose eredità di matrice illuminista come quella che impone l’uguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, assume in vero le sembianze del vile e meschino difensore di crimini immondi volti a rendere formale omaggio a prassi e comportamenti che ripugnano la coscienza dei giusti, si pone volontariamente al di fuori del recinto democratico e civile. Non c’è infatti differenza tra il gas usato dai militari di Saddam per uccidere i curdi e l’assassinio violento di uomini indifesi bastonati a sangue nelle patrie galere per ripristinare l’ordine violato da chi ha osato sfidare le prescrizioni dell’autorità. La democrazia è incompatibile con il riconoscimento di sacche di impunità. I casi di abusi paranazisti, spesso insabbiati, perpetrati da alcuni militari in danno di soggetti deboli presi in custodia dallo Stato non si contano più. Così come è inammissibile sapere che i poliziotti che depistarono il processo Borsellino indirizzandolo verso bersagli di comodo tramite l’utilizzo screanzato di un pentito da batteria come Scarantino non siano ancora finiti sotto processo. Fa bene la Cancellieri a manifestare solidarietà alla famiglia Cucchi. Un gesto dall’alto valore simbolico che merita apprezzamento. Ma a questo punto la solidarietà da sola non basta più. La parte migliore del nostro Paese non può sacrificare secoli di battaglie politiche, sociali e culturali culminate nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo mostrandosi inerme e indifferente nei confronti di casi eclatanti e sfacciati che rischiano di legittimare crescenti rigurgiti nazisti.
Francesco Maria Toscano
6/06/2013
“Il film sulla storia di Federico Aldrovandi di Filippo Vendemmiati “E’ stato morto un ragazzo” presentato alla Mostra del Cinema di Venezia ripercorre l’emblematico caso giudiziario e giornalistico legato alla morte del giovane. Un film non contro un’istituzione, ma a difesa dei diritti dei cittadini, per la trasparenza dello stato e per evitare che in futuro in Italia possano accadere altre morti assurde come quella di Federico. Un film importante, ed è per questo che riteniamo altrettanto importante che la Rai decida di trasmetterlo!” E’ l’appello lanciato a Venezia dal portavoce di Articolo21 Giuseppe Giulietti.