Uno spettro si aggira per l’Europa: lo spettro di John Maynard Keynes. Sin dai tempi della sua progettazione, la moneta unica europea è stata pensata come strumento necessario per impedire agli Stati di attuare con successo quelle politiche keynesiane che avevano consentito lo sviluppo di moderni sistemi di welfare, della democrazia partecipativa, dei diritti civili e sociali. L’articolo 123 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea recita:
“Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte delle banche centrali degli Stati membri […] a istituzioni, organi od organismi dell’Unione, alle amministrazioni statali, […] così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da parte della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali.”
La pietra tombale che le istituzioni europee hanno deciso di porre sulla possibilità che gli Stati si possano finanziare in maniera autonoma, presso la propria Banca Centrale, determina una scissione fra politiche monetarie, affidate ad una istituzione sovranazionale (la BCE), e politiche fiscali, affidate ai governi dei singoli Paesi. Ciò porta i governi stessi a dover calibrare le proprie politiche fiscali non secondo finalità pubbliche, ma necessariamente secondo la reazione attesa dei mercati finanziari, come dichiarato ad esempio dall’ex ministro Elsa Fornero in merito alla riforma del sistema pensionistico.
Inoltre, lo statuto della BCE impone a quest’ultima di doversi occupare esclusivamente del controllo del tasso d’inflazione. Come spiegato in un contributo precedente, ciò comporta una redistribuzione della ricchezza verso i creditori, la maggior parte dei quali logicamente appartiene al mondo finanziari. In questo senso, l’economista Alain Parguez ha tutte le buone ragioni nell’affermare che l’euro è una “falsa moneta contro l’economia reale”: una moneta, cioè, che trova la sua ragion d’essere non nel circolare e finanziare attività produttive, ma nel restare immobilizzata al suo massimo valore possibile all’interno dei portafogli degli investitori.
Moltissimi osservatori italiani ed internazionali sono stati perciò sorpresi dal colpo di coda di Mario Draghi, che nel 2012 ha deciso di fornire liquidità illimitata al settore bancario europeo con le mirabolanti manovre denominate Long Term Refinancing Operations (LTRO). I plausi alla politica salvifica di Draghi, che segue la scia di interventi come quello della FED dell’ex governatore Bernanke e della Bank of Japan, non si sono fatti attendere, ed hanno per l’occasione rievocato lo spirito di Keynes. Ciò che la maggior parte dei media e degli economisti mainstream hanno cercato di trasmettere al grande pubblico è che la pioggia di denaro emessa dalle banche centrali direttamente nelle riserve bancarie sia un sintomo del ritorno alle politiche keynesiane (circa 29 trilioni di dollari negli USA, secondo le stime di James Felkerson dell’Università del Missouri-Kansas City, ed oltre 1,3 trilioni di euro all’interno dell’Eurozona).
Dobbiamo allora chiederci che cosa si intende per “politica keynesiana” e confrontare la realtà dei fatti con le idee e le previsioni offerte con faciloneria dai media. Le politiche keynesiane hanno lo scopo di gestire la cosiddetta domanda aggregata, la quale dipende essenzialmente da consumi privati, investimenti privati, spesa pubblica ed esportazioni nette (sulle quali però si devono fare considerazioni ulteriori). Se perciò gli agenti privati non hanno redditi a sufficienza al fine di spendere per consumi ed investimenti, se il governo non spende a sufficienza e se non è possibile esportare a sufficienza, si verificano delle “fughe di domanda” e l’economia non può crescere. Il risultato sarà, naturalmente, il crollo dell’occupazione a cui seguirà un ulteriore crollo dei consumi, dei redditi e degli investimenti.
Che ruolo ha in tutto questo un’operazione volta ad iniettare liquidità nelle riserve bancarie? Come sostiene l’economista Warren Mosler, “se una banca incassa un reddito e [...] non lo spende, ma lascia invece crescere il proprio patrimonio, questa è una fuga di domanda. Perciò quello che sta accadendo in generale è che l’andamento della crescita è per lo più stazionario, con i redditi che non vengono spesi ma vanno invece ad incrementare il patrimonio netto: e perciò questi redditi sono fughe di domanda”.
La speranza di FED e BCE, perciò, è che fornendo liquidità al sistema bancario sia possibile far arrivare fondi all’economia reale sotto forma di maggiori prestiti. Il combinato disposto di grandi masse di liquidità e tassi d’interesse sempre più bassi praticati dalle banche centrali dovrebbe, nell’idea dei banchieri centrali, incentivare il settore privato ad indebitarsi di più per far ripartire i consumi e gli investimenti, e riattivare la crescita dei redditi grazie ad una maggiore inflazione.
Ma non è andata poi così bene. I risultati sono quelli che potete osservare nelle Figure 1 e 2, che prendono in considerazione l’andamento dei prestiti al settore privato non finanziario e del tasso d’inflazione core per l’Italia:
Figura 1: Prestiti al settore privato non finanziario (fonte: Banca d’Italia).
Figura 2: Tasso di inflazione core per l’Italia (fonte: ISTAT).
La ragione sottostante al fallimento di questa politica è chiara: i modelli teorici con cui la BCE ha finora analizzato il contesto macroeconomico ritengono che il semplice aggiustamento del tasso di inflazione e dei tassi d’interesse (ovvero, la politica monetaria) possa di per sé riattivare la crescita economica, come ha spiegato ad esempio l’economista Marco Veronese Passarella in un’intervista concessa ad Economia Per I Cittadini.
L’Eurozona, al contrario, ha un disperato bisogno del ritorno alle leve della politica fiscale. Attraverso l’utilizzo dei disavanzi pubblici, programmati in maniera tale da creare posti di lavoro volti alla creazione di risorse utili e produttive per la pubblica utilità, i governi devono incentivare la crescita dei redditi. Solo attraverso l’incremento dei redditi è possibile risanare i bilanci dissestati delle imprese italiane ed europee, e di conseguenza ripristinare la salute del sistema bancario.
Tentare di manovrare i tassi d’interesse, sperando che ciò incida sul tasso d’inflazione, che incentivi famiglie ed imprese ad indebitarsi di nuovo e che incoraggi il settore finanziario a scommettere su un incremento generale dei prezzi delle attività finanziarie significa sperare nella creazione di nuove bolle finanziarie. Una soluzione non auspicabile e, in definitiva, non keynesiana.
Giacomo Bracci
Grazie
ottimo. grazie davvero