Caro Francesco Toscano, è un mio limite, lo ammetto. Ma a me, buzzurro zoticone che non sono altro, questo mitico “La grande bellezza” di Sorrentino non ha detto granché. Dopo averlo scritto, of course, mi aspetto che la folgore si abbatta su di me dall’alto dei cieli dell’intellighenzia sinistrorsa e mi punisca. Intanto li anticipo e faccio da me medesimo: mi guardo allo specchio e mi sputo nell’occhio riflesso, così ben mi sta! Poi però non riesco proprio a pentirmene, di averlo pensato e nientemeno messo nero su bianco. Sarà pure un capolavoro e l’Oscar come “miglior film straniero” decretato dall’Academy Award sarà stato sacrosanto, ma dopo averlo visto – lo ammetto, con un occhio, quello che poi ho centrato col meritato sputo, mentre con l’altro continuavo a lavorare, di questi tempi non basta davvero mai … – mi sono assai immedesimato in quell’iconoclasta rivoluzionario del ragionier Ugo Fantozzi. E nella sua “critica”, succinta ma efficace, in merito al presunto (ma non secondo i parrucconi compagnovskji del minculpop di ogni epoca e latitudine) “valore artistico” del celeberrimo lungometraggio “La Corazzata Potemkin” del prode cineasta sovietico Sergej Michajlovic Ejzenstejn: “E’ una cagata pazzesca”. Ma questo non si può dire, in questo Strapaesotto di ipocriti e conformisti cacasotto, in questo posto pieno zeppo di utili idioti e raccomandati, infestato da paraculati del 27 del mese e straripante amici degli amici e parassiti di ogni risma e improbabile “ideologia”, ma sempre statalista (e sì, Versace “c’ha l’ossessione dello statalismo e dei burocrati statali...”) e costantemente a spese del prossimo. Insomma, in questo “buco di c… di mondo”, per dirla con Indro Montanelli (sulla sua Fucecchio), il “politicamente corretto” ci ammorba, intossica e cloroformizza ogni dì che il Signore manda in terra, impedendoci di pensare con la nostra testa. Perciò, sotto con “ebbé poche chiacchiere La Grande Bellezza è un gran bel film…” eccetera. Peraltro legittimo e comprensibile sostenerlo, a parte gli eccessi di smanceria e ruffianeria che hanno rasentato il ridicolo. A parte i leccaluco per interesse e opportunismo, che applicano alle lettera l’aforisma di Cioran: “La agiografia non è altro che un assassinio per troppo entusiasmo”. Di più, credo che persino l’entusiasmo codino e untuoso, con cui il mondo della cinematografia e della cultura italiane – ve le raccomando – hanno accolto la notizia dell’Oscar assegnato all’opera di Paolo Sorrentino faccia parte del gioco. E vada ingoiata, come il solito rospo insipido che ci strozza. Quello che io non riesco a capire, invece, né a condividere, semmai è il compiacimento e l’orgoglio per come ci venga rappresentata Roma. E quindi, postilla abusivamente qualcuno, l’Italia. Non mi riferisco alle suggestive immagini della capitale che il sindaco Marino voleva bloccare se non avesse avuto il vergognoso, ributtante “Salva Roma” (che, oltretutto, non gli basta neanche, a queste facce toste…). No, io mi riferisco all’ambiente culturale, alla orripilante fauna, alla degradata società, ai rapporti squallidi tra le persone e tra persone e la città che descrivono, appunto, un umanità allo sbando, sozza e marcita dentro, corrotta e imputridita, priva di ogni senso morale. Scusate un poco, ma che c’è da andare orgogliosi di questo luridume, di questo cesso ammantato di google map? Eppure, questo vedo e sento in alcuni sofisticati, illuminati e colti commentatori. Bravi: siete impareggiabili, con le vostre stronzate gabellate per vaticinii un tanto al chilo. Non è un caso se, alla fine, i personaggi più sani, si rivelino proprio quelli che inizialmente appaiono i peggiori: il protagonista Jep Gambardella-Toni Servillo e la patetica spogliarellista interpretata da Sabrina Ferilli. E ho detto tutto. Solo che su questo depravato e pervertito fondale umanoide, anche le meravigliose immagini di Roma paiono come null’altro che usate per giustificare e coprire tanto marciume e tanta putrida vacuità. Risultando infine meno belle e meno vere. Un capolavoro, non trovate? Io ho l’impertinenza di pensare, pertanto, che codesto filmone insignito di cotanto Oscarone, ci faccia fare una collettiva planetaria figura di merda. Dipingendoci, con la telecamera intinta nella medesima nobile sostanza, come una società orribile, stercoraria, infame, insopportabilmente vuota. E come un popolo depravato, estinto, ingnobile, soffocato nel suo vomito, gremito di zoccole, preti gastronomi, giornaliste nane, scrittori che non scrivono, tossicomani e spacciatori, illusionisti senza decoro e nobili decaduti senza dignità. E politici fantasmi. Una figura – mi permetto di insistere – da me non richiesta e non gradita: per il semplice e banale motivo che noi non siamo così. Forse Sorrentino incontra e conosce solo questa roba: ma da uno che cita Diego Armando Maradona come “my creative source”, sua fonte creativa, non credo sia il caso di aspettarsi altro. Però specialmente in un momento tanto disgraziato e drammatico per tutti (o quasi), in cui molti sono impegnati con tutto loro stessi nella lotta angosciante e disperata per la sopravvivenza, io sono convinto che una cosa apparentemente “voluttuaria e futile” come il cinema faccia la differenza tra il nostro comune precipitare definitivo nell’abiezione o l’inizio della risalita verso una esistenza degna di essere vissuta. Perciò, non vada sottovalutato, né gettato nella spazzatura al banale grido “eccheccazzo abbiamo cose più importanti da fare in questo momento”. Vedete, il rischio peggiore che corriamo tutti è quello della assuefazione. Che è la peggiore cosa in questa situazione. Assuefarsi cioé alla “Grande Monnezza”. Ma sparlare di noi italiani, anticipando la maldicenza altrui, mi ricorda l’assuefazione dei tedeschi ai nazisti di Hitler come li ammoniva Thomas Mann. Per fortuna mia, trovo subito una smentita al raccapricciante racconto di Sorrentino, che cioé noi saremmo come lui ci ha rappresentati. Anche se non sono d’accordo con lui, né frequento i “salotti romani” da cui ha saccheggiato i figuri per il suo “capolavoro”. Mesi fa ho ospitato in una memorabile puntata della mia trasmissione mattutina su Canale Italia – Italia 53 – un caro amico regista cinematografico: si chiama Antonello Belluco. Conosco da tempo Antonello, che anni fa ha lavorato nella mia emittente, occupandosi di palinsesti e direzione artistica. Nella stessa trasmissione c’era anche lo storico Antonio Serena, autore dello straordinario “I giorni di Caino”, da cui Giampaolo Pansa ha tratto spunto per il suo “Il sangue dei vinti”. Belluco è un padovano di 56 anni. Ha lavorato in Rai dall’83 come programmista e regista per Radio 2 e Rai 3. A Venezia e a Roma. Ha diretto il film “Antonio Guerriero di Dio” sulla vita di Sant’Antonio di Padova, il santo più venerato. Ad un certo punto della sua vita, Antonello ha avuto un’idea. A posteriori, si è rivelata una pensata veramente pessima e nefasta per la sua carriera e soprattutto per la sua serenità. Ecco l’idea: girare un film sulla strage di Codevigo, il più cruento eccidio compiuto dai partigiani alla fine della Seconda guerra mondiale. Occhio al particolare, la guerra era già finita. Insomma, Belluco è andato alla ricerca certosina delle verità abrasive e rimosse di una delle pagine più nere della storia italiana, una pagina ancora avvolta da tanti misteri. Una vicenda obnubilata con feroce determinazione dai “padroni della verità”. La sceneggiatura è firmata da Belluco con il compianto Gerardo Fontana (che fu sindaco di Codevigo, morto durante le riprese del film), scenografie di Virginia Vianello (nipote di Raimondo Vianello), finanziatori la film commission della Regione Veneto e sponsor privati. Pensate che per Belluco è tornata al cinema Romina Power, un evento. «Il mio film è essenzialmente una storia d’amore, tra una quindicenne, Italia, e un diciottenne, Farinacci Fontana, che realmente è stato una delle vittime della strage – ci ha spiegato in tv Belluco – . L’eccidio fa da sfondo. E’ soprattutto il ritratto di una famiglia veneta vissuta in quegli anni». Il fatto che in quel lontano 1945 a Codevigo ad ammazzare fascisti e civili siano stati i partigiani della Brigata Garibaldi guidata da Arrigo Boldrini, è un tasto dolente. Di più, è un tabù intoccabile. Lo sappia: chi osa sfiorare quei fili, rimane folgorato. Infatti, Carlo, figlio del comandante Boldrini si fece sentire, tramite l’avvocato Emilio Ricci, pretendendo di supervisionare la sceneggiatura e “diffidando”. Un classico. Le cifre della carneficina non sono sicure. Chi dice poco più di cento. Chi parla di varie centinaia di morti ammazzati dai partigiani comunisti. Ma nessuno in realtà a tutt’oggi è in grado di dire, con esattezza, quante persone furono trucidate realmente in quella mattanza: c’è chi parla di 136 vittime, chi di 168 e chi di 365, come i giorni di quell’atroce 1945. Un documento dell’arcidiocesi di Ravenna-Cervia ipotizza addirittura 900 morti. I fatti sono questi: la 28ª Brigata Garibaldi ‘Mario Gordini’ arrivò a Codevigo il 29 aprile del ’45. Era agli ordini di Arrigo Boldrini, detto Bulow. Inquadrata nell’VIII Armata angloamericana del generale Richard McCreery. Vestiva divise inglesi, col basco fregiato di coccarda tricolore. All’epoca Bulow aveva 30 anni. Antonio Serena nel suo ‘I giorni di Caino’ scrive che Boldrini era un comunista con alle spalle un passato di capomanipolo nell’81º Battaglione ‘Camicie nere’ di Ravenna, sua città natale. Finita la guerra, sarà deputato del Pci per sei legislature, vicepresidente della Camera e presidente dell’Anpi, Associazione nazionale partigiani d’Italia. Fu decorato dagli inglesi con medaglia d’oro al valor militare. Nel film “Il Segreto” di Bulow non si parla. Il comandante brigatista ha un nome di battaglia diverso: ‘Ramon’. Boldrini-Bulow s’è sempre difeso sostenendo che si muoveva fra Padova, Bologna, Milano, Venezia e Adria e mai ordinò le brutali uccisioni. Fatto sta – sostiene Beluco – che i partigiani venuti da Ravenna rastrellarono un po’ in tutto il Veneto appartenenti alle disciolte formazioni della Repubblica sociale italiana e li portarono a Codevigo. Il bilancio dei processi sommari non si discosta molto da quello dell’eccidio delle Fosse Ardeatine. Ma qui non ci sono un Herbert Kappler e un Erich Priebke. Non è differenza di poco conto. Don Umberto Zavattiero, che a quel tempo era prevosto di Codevigo, annotò nel chronicon parrocchiale del ’45: “30 aprile. Previo giudizio sommario fu uccisa la maestra Corinna Doardo. Nella prima quindicina di maggio vi fu nelle ore notturne una strage di fascisti importati da fuori, particolarmente da Ravenna. Vi furono circa 130 morti. Venivano seppelliti dagli stessi partigiani di qua e di là per i campi, come le zucche. Ora. Dal momento in cui a Belluco è venuta questa “balzana idea”, è iniziato un calvario. Antonello è finito risucchiato nel tritacarne del potere invisibile ma onnipresente ed onnipervasivo della “cultura ufficiale” e di regime. Che gli ha tolto l’aria e il terreno sotto i piedi. Lui ha subito boicottaggi d’ogni genere: a cominciare dai produttori in fuga, con perdita di contributi già assicurati. Per finire con la famosa cantante Antonella Ruggiero che si sarebbe rifiutata di interpretare la bellissima colonna sonora del film dopo averne conosciuto il soggetto. Rai Cinema, of course, ha rifiutato il progetto perché “non in sintonia” con le loro linee editoriali… Lo sappiamo bene: se non sei “dei loro”, se non fai parte della camarilla dei registi progressisti, se non sei iscritto all’anagrafe degli intellettualoni sinistresi, non ti aspettare che ti arrivi un solo centesimo di fondi pubblici. Anzi, cercheranno in ogni modo di spazzarti via. Mi racconta Belluco: Dennis Dellai, regista vicentino di Così eravamo e Terre rosse, lungometraggio sulla resistenza, aveva promesso di mettermi a disposizione armi, automezzi e divise della Seconda guerra mondiale. Eravamo già d’accordo, ma all’improvviso ha cambiato idea. Quando la nostra producer, Maria Raffaella Lucietto, ha chiesto spiegazioni, Davide Viero, l’aiuto regista di Dellai ed esperto di materiale bellico, ha balbettato qualcosa come “tengo famiglia”: non voleva mettersi contro l’Anpi e i partigiani. Da quel momento i quattro o cinque collezionisti del Veneto ci hanno chiuso le porte in faccia. “A Belluco non si deve dare niente, è il passaparola”. Un ordine di emarginazione e discriminazione vero e proprio. Ma Antonello è testardo. E cocciutamente è andato avanti lo stesso. A dispetto dell’anatema dell’Anpi, che non ne vuole sapere di letture storiche che si affrontino e riaprano vicende “morte e sepolte” e bercia contro il “revisionismo neo fascista”. Lo ammiro per questo coraggio. Anche se è proprio triste che ci voglia “coraggio” soltanto per cercare la verità in un Paese che a parole si definisce “libero” e nei fatti non lo è. Ma ascoltatemi: dico che la lotta di Belluco è e deve diventare la nostra battaglia. Per arrivare finalmente conoscere le cose così come si sono svolte, lontane dalla santificazione, dalla mistificazione e selezione parziale della lotta partigiana. Insomma, ciascuno deve fare la propria parte, per sapere la verità e non continuare a franare nel terreno fangoso della menzogna di Stato in cui ci hanno fatto camminare e cadere nei decenni. Chi è stato maledetto e condannato dal potere della sinistra, che gli ha appiccicato addosso il bollino infamante di “autore revisionista” (penso a Giorgio Pisanò, a Gianpaolo Pansa, che ho conosciuto bene, entrambi, e che si sono visti bollare le proprie opere come spazzatura da mandare all’inceneritore) è stato perseguitato e costretto a vivere il proprio lavoro come un “delitto di pensiero”. E’ toccato anche a me, come saprete, nel mio piccolo. Ne sono uscito con le ossa rotte, in un lago gelato di amarezza e rabbia, ma non piegato. Non sconfitto e protetto dall’amore di chi mi stima e vuole bene. Forte della coscienza di chi sa di combattere per una causa giusta e accetta di pagarne il prezzo, pur salato. Come chi non si arrende e vuole dissipare con il profumo della verità la vulgata puzzolente che ci ammorba da decenni: i Gendarmi Della Memoria com’è noto si arrogano il potere di essere “i soli” a scrivere la storia. Tutti gli altri mentono sapendo di mentire e sono dei farabutti. Anche quando hanno ragione. Anche quando “non vogliono negare”, ma semplicemente “integrare” e completare. Perché la storia si compone di memoria e di ricordi. E la memoria è materia viva. E il ricordo non si può né imbalsamare, né soggiogare. Conclude Belluco, che non si è fatto spaventare dalla campagna di isolamento e demonizzazione: “Ormai ho fatto mio l’impegno dell’Amleto di Shakespeare: “parlerò anche se l’inferno stesso si spalancasse per ordinarmi di tacere”. Ma io vi prego, non facciamoci fermare dalle minacce e intimidazioni, combattiamo sempre «per amore di verità». Della maestra elementare, Corinna Doardo, 39 anni, vedova di un sarto, che aveva insegnato a leggere e a scrivere a uno stuolo di bambini, scrisse Pansa ne “Il sangue dei vinti”: «Andarono a prenderla a casa, la portarono dentro il municipio e la raparono a zero. La punizione sembrava finita lì e invece il peggio doveva ancora venire. Le misero dei fiori in mano e una coroncina di fiori sulla testa ormai pelata e la costrinsero a camminare per la via centrale di Codevigo, fra un mare di gente che la scherniva e la insultava. Alla fine di questo tormento, la spinsero in un viottolo fra i campi. E la uccisero, qualcuno dice con una raffica di mitra, altri pestandola a morte sulla testa con i calci dei fucili». Del figlio del podestà, Ludovico Bubola, detto Mario, riferisce il mio amico Serena nel suo “I giorni di Caino”: «I barbari venuti a liberare il Veneto cominciano a segargli il collo con del filo spinato, finché la vittima sviene. Allora provvedono a farlo rinvenire gettandogli in faccia dei secchi d’acqua fredda. Ma il martire non cede e grida ancora la sua fede in faccia ai carnefici. Allora provvedono a tagliargli la lingua che gli viene poi infilata nel taschino della giacca. Quindi, quando la vittima ormai agonizza, gli recidono i testicoli e glieli mettono in bocca. Verrà poi sepolto in un campo d’erba medica nei pressi, sotto pochi centimetri di terra». Tranquilli, però: il film di Antonello Belluco uscirà, in barba a tutti i boicottatori. Magari gli stessi che frequentano i “salotti romani” della “Grande Monnezza”. Ecco, infine. Io non voglio, io non tollero, io non sopporto più dover vivere in un luogo che porta questi segni della vergogna e li nasconde agli uomini e alle donne del presente e del domani. Io non sopporto, io non tollero, io non voglio più di vivere e lavorare in una Terra Bugiarda. Perché accettare di esserne sudditi senza ribellarsi, per me è la colpa più grave. E, caro il mio Francesco, la pena più insopportabile.
Gianluca Versace
giornalista e scrittore
Quanta foga, Si citano Hitler, Thomas Mann, Shakespeare; si smadonna contro i sinistrorsi (cosa ci sia di sinistrorso, non si sa), piccolo particolare non si entra nel merito di questo bellissimo film, un’opera come non ne uscivano da vari decenni in Italia.
Si dice che si è stufi del marciume romano italiano; ma c’è, esiste e quel film non ne è l’apologia, mi pare.
Insomma invece di esprimere il personale senso di frustrazione per non aver capito il film si potrebbe discutere della sostanza.
Ad esempio Gianluca Versace dice:
“le meravigliose immagini di Roma paiono come null’altro che usate per giustificare e coprire tanto marciume e tanta putrida vacuità”
Purtroppo non è così; all’inizio il turista giapponese che si isola un momento per fotografare il panorama di Roma rimane fulminato da un infarto. Perché muore, secondo Gianluca Versace? Forse perché “La Grande Bellezza” è qualcosa di mortale (ovviamente per l’animo), qualcosa che con il suo fascino avvelena e leva le forze (Jep Gambardella non scrive più e si lascia vivere senza prendersi alcun impegno, oppresso da una profonda malinconia).
Il film si “intitola “La Grande Bellezza”; come mai allora i tre personaggi positivi sono la piccola colf, la piccola nana, e la piccola vecchissima suora ossia tre esemplari de “La Piccola Bruttezza”?
Il film è bello e il personaggio di Jep è ricco di umanità, tra l’altro interpretato in maniera splendida; l’unica cosa che lascia perplessi è il fatto che il percorso di liberazione “à rebours” verso “le radici” di Jep Gambardella si risolve in una presa di coscienza puramente personale, senza che il protagonista abbia intuito l’umanità degli altri se non in termini sentimentali e contemplativi, in modo del tutto estraneo da qualsiasi “decisione” di impegno e di comprensione della dimensione più profonda, quella sociale e politica, della sua deriva estetizzante.
Sì, ci sono degli sporadici accenni a un discorso più complesso di rapporti sociali fra le classi nell’incontro fra il protagonista e il suo misterioso vicino, come quando “dal basso” del suo terrazzino Jep fa un brindisi all’altro che “sta più in alto” mettendosi in una ridicola posizione inchinata, di goffa sottomissione; ma lo si risolve in maniera quasi consolatoria dicendo che in fondo l’altro era un delinquente. Non funziona e non è completo (come non è completo il personaggio della Ferilli la cui morte è accennata in modo troppo sbrigativo).
Jep è un ignavo, un vile che maschera la sua reale insignificanza sociale con l’apparenza mondana, con la sua eleganza strepitosa che nasconde il desiderio di comoda ascesa sociale ossia avendone i vantaggi ma senza prendersi gli oneri. Ma l’ascesa sociale vera costa il rischio, il compromesso pesante e per evitarlo Jep si rifugia nell’effimero che ne esaurisce qualsiasi vena creativa e umana.
Quella è “La Grande Bellezza”, il mito della ricchezza, del prestigio, del potere, del successo con le donne per il quale è necessario rinunciare a qualsiasi autentico impegno verso gli altri, politico o sentimentale e in ultima analisi al riconoscimento dell’umanità profonda di chi è sconfitto come degli stessi debosciati drogati delle feste sulle terrazze romane e alla fine dello stesso Jep Gambardella.
Un grande film che si è fermato un passo prima di realizzarsi compiutamente.
Bravo.
Credo che questa “incompiutezza” sia da ascriversi ad un limite cognitivo che ha afflitto e affligge la stragrande maggioranza degli artisti. Il primo nome che mi viene in mente e che si è distinto per acume “intellettuale” nonostante la genialità più propriamente “artistica”, è quello di Pasolini.
Concordo che è un capolavoro di stirpe felliniana e dispiace che non colga “l’esogenità” della malattia che descrive: malattia che non dipende dalla “classe” né, soprattutto, dall’italianissima Roma.
E’evidente che chi descrive un improbabile decadentismo di una società neonata è un autore a cui sfuggono completamente tematiche che non siano prettamente individuali.
Se Sorrentino si destreggiasse compiutamente in tutto il “quadrivio” è certo che l’Oscar non lo avrebbe preso… e, magari, lo avrebbero trovato pestato a morte all’urlo di “frocio comunista”.
Gentile Versace, a proposito dello ” sfogo” qui sopra per il film in oggetto, mi sembra che ogni commento sia superfluo: gli Oscar vengono assegnati al di la dei meriti e non sono altro che una partita di giro tra le Case Cinematografiche! Vedrà che per un bel po in Italia non arriveranno Oscar ( e chi se ne frega) se non di terzo livello saluti
La Grande Bellezza è un film, la settima arte. Nulla di più! Se poi gli americani ci trovino l’espediente per dimostrare urbi et orbi come sia cambiata la società italiana, accettiamolo lo stesso. Sempre di opera d’arte si tratta! Anche Bacon dipingeva la trasfigurazione umana, l’alienazione ed è per questo che è diventato un grande interprete del novecento.
Il consiglio è non apporssimiamoci per forza in stime e disistime, non inventiamoci per forza critici e cultori di linguaggi artistici. Un film è un film. Un’opera d’arte è un’opera d’arte. Ma come tutte le opere, si presta anch’essa alla speculazione ed alla strumentalizzazione…
Chi vuol (e può…) capire, capisca…
Buona domenica a tutti.
Ma nessuno prova ad analizzare il film come se nascondesse qualcosa di più profondo, oltre la superficie, tipico di tutte le arti? Provate a raffrontare il cammino di Dante nei gironi infernali (fino ad arrivare a Beatrice), con la memoria consapevole di Joe Gambardella, che si rammarica di non essere stato forte nel perseguire la “vera vita” e di “amare la giusta donna”, sebbene intravista nel corso della sua vita: la Grande Bellezza. Questa è la mia interpretazione, ovviamente soggettiva. E, in questo senso, si potrebbe parlare di capolavoro.
Non l’ho visto. Intendo continuare così, per quanto me ne importa.
Il testo di Versace, purtroppo, l’ho invece letto fino alla replica del solito pistolotto idiota contro chi lavora nel settore pubblico. Evidentemente il nostro “giornalista e scrittore” fatica a fare i necessari distinguo, preferendo sparare nel mucchio. Tanto, lui pensa di stare dall’altra parte del fucile, no? Dunque, bang! bang!
Veramente non se ne può più di una classe di pseudointellettuali senza virgolette, che non riescono a distinguere un capolavoro da un cinepanettone. Segno sicuramente dei tempi, dove la percezione estetica della qualità cinematografica si è talmente appiattita da non essere in grado di interpretare, intendere e giudicare un’opera che ricorda molto l’altezza d’ingegno e la qualità artistica di registi quali Fellini, Visconti e Antonioni. Anche i loro film erano spesso difficili e a tratti incomprensibili, ma in quel tempo, in cui Pompei stava ancora in piedi e c’era un livello di cultura media sicuramente più elevato, non ci si poneva il problema, si cercava semplicemente di rielaborare le proposte artistiche di quei grandi registi, globalmente riconosciuti come tali, come si è dimostrato con questo film (ma anche con altri precedenti) Paolo Sorrentino. Fatevene una ragione.
Antonioni, Fellini, Visconti e… Sorrentino????
Le piacciono gli ossimori, mi pare
Hanno premiato quel film in quanto critico, cinico, risentito, idealista (ovviamente in negativo: siccome l’ideale non sta più in piedi, il disprezzo dilaga), ricco soprattutto di ingratitudine…
L’hanno premiato perché antirinascimentale, ovvero anticattolico…
Versace…
non ne becca una.
Versace, si goda i capolavori di proprietà del suo mentore, a partire dai vari “Vacanze di Natale” in poi. Lì troverà tutto il materiale artistico che la aggrada e certamente avrà più credito del film di Sorrentino
Noto con vivissimo stupore (sarà ironico?) che niuno dei miei dotti risponditori ha speso una (1) sola parola sull’85 % del mio pezzo. Cioé a dire, la vicenda di Antonello Belluco e il suo film “Il Segreto”. Non serviva neppure averlo visto, poiché in effetti non è ancora uscito.
Fatalità.
Cari miei censori, che è che “non ne becca una”? Parliamone.
By the way, per soprammercato aggiungo che l’articolino è stato pubblicato – anche e in precedenza – su un periodico “cartaceo” e – on line – pure su una pg Fb. Ora, ex post, sto raccogliendo numerosi attestati di consenso, diametralmente opposti al segno dei commenti su questo sito: un bell’impegno, ora, dover rispondere a tutti costoro che “non ne beccano una”, mannaggia la peppa (pig).
Mi toccherà mica diventare snob pure a me?
glv
Per me il problema grosso è che questo Paese è diventato una dittatuta gestita dalla Grande Finanza Usuraia con la stampella degli Ex-comunisti. Si finanziano centinaia di “cagate” che addirittura nonm vedoranno mai la luce e questo non puo’ far uscire il suo capolavoro (l’ho visto in trailer) perché non politicamente corretto. Versace ha ragione: è un Paese di merda dal quale chi puo’ scappa. Informatemi se è sempre la celebratissima “Italia nata dalla Resistenza” o è cambiato qualcosa. Qui ne nasce una al giorno: piu’ o meno come i presidenti del consiglio eletti “in osteria” tra amici.Monnezza? Molto peggio.
Grazie attenzione, annamaria
Una cagata pazzesca, fu il film del comico toscano Roberto Begnini, un vero invasato,il cui repertorio come al solito è saturo di volgarità, degne di un carrettiere.Il suo mediocre film: “La vita è bella” fu premiato ad Holywood. In verità il premio che gli fu conferito era perchè il protagonista del film essendo un ebreo, narrava le sue vicissitudini,in occasione del periodo trascorso nel lager di Auschwitz. Ma nessun dico nessun critico cinematografico, che ricordi che quel film fu premiato negli USA dalle maggior case produtrici statunitensi, che non per caso sono in maggioranza di proprietà di ebrei.Ecco spiegato l’arcano e il vero motivo del premio dato ad un film mediocre, un vero cine panettone.
“Posso rettificare una cosa che ho detto nel film? Non fare l’amore è stato bellissimo, ma farsi le pugnette è la grande tristezza” – Checco Zalone a Sabrina Ferilli.
Con Checco, senza se e senza: contro l’intoccabilità di ‘sto film da dupalle che piace “perché fa figo” ai radical chic e finanche ai nostri lettori statalistoni e snob a spese altrui, molto attinente allo spreco di risorse (pubbliche e private) per la creazione di una mappazza proto-felliniana che se non si sta attenti può anche cagionare l’orchite.
Con Checco, for president, con o senza slide coi pesciolini “che vi piacciono tanto” (Bugs Bunny dixit), volgare nell’accezione più nobilmente autentica, un rutto sincopato a colpi di risa vi e ci seppellirà, fatevene una ragione! Ah ah ah ah ah ah ah ah ah
I-n-i-m-i-t-a-b-il-e.
Buona salute a tutti
Per la verità, un certo disagio mi accompagnava, mentre da conformista guardavo il film con l’intenzione prevenuta che mi dovesse piacere. Perchè il titolo era bello, perchè il protagonista era bravo, perchè se aveva preso l’Oscar era certamente un buon film. Inoltre era un film italiano e con sano patriottismo gradivo avesse ottenuto tanto successo. Ma man mano che scorreva, il mio deluso stupore aumentava e i commenti si susseguivano con noiosa ripetitività. Ma perchè copia così male Fellini? Perchè non sa dire qualcosa con un proprio linguaggio? Perchè ci fa vedere una dolce vita così poco attuale nei nostri giorni? Perchè piace tanto agli americani? Per consolarmi ho riguardato Giulietta degli spiriti pensando che il suo autore si sarebbe rivoltato nella tomba. Come disse qualcuno parlando di questo film, la grande bellezza era solo quella della città eterna. Poi ho letto la critica di Versace e mi son detta: sarò io una sinistra anomala, ma di “sinistroso” nel film, non vedo proprio nulla. Ma mi ha confortato che in mezzo a tanti inni di lode nei quali non trovavo consonanza, il mio pensiero solitario e un giudizio privo di velleità di esperta, trovasse una voce che esprimesse un certo disincanto. E’ un film migliore di quelli che fanno cassa, ma è proprio su questa consapevole convinzione e presunzione che si regge la sua impalcatura. Come dire: guardatemi, non scorgete che sono un film profondo, sofisticato, pieno di sottili riferimenti, colte citazioni, iperscrutabili messaggi? Sarà, ma mi hanno annoiato. Non vi ho trovato la bellezza che speravo e che oggi sembra scomparsa dalle nostre città, dall’architettura contemporanea, dagli spazi costruiti dall’uomo e che neppure l’effimero sembra ormai saperci donare.
Luisa Calimani