Una nube di ottimismo circonda l’annuncio del Documento Economico e Finanziario (Def) presentato dal premier Matteo Renzi e dal ministro dell’Economia Pier Carlo Padoan, con il quale il nuovo governo si appresta a valutare l’impatto delle proprie riforme sugli andamenti economici futuri del Paese.
Per quest’anno si prevede, secondo il Def, una crescita del Pil dello 0,8%, che dal prossimo anno diviene addirittura dell’1,3% per poi aumentare ancora negli anni successivi; mentre le previsioni sul rapporto tra deficit e PIL parlano di un livello del 2,6% per quest’anno, del 2% per l’anno prossimo e dell’1,5% per il 2016.
Ma come si arriva, secondo il governo, a questo misero ma al contempo miracoloso risultato di crescita? Il piatto forte del menu di Renzi è la riproposizione dell’amara zuppa tecnocratica servita sul piatto degli Italiani da almeno tre anni: tagli alla spesa pubblica da un lato, riduzione di Irpef e Irap dall’altro, con annesso l’aumento della tassazione sulle rendite finanziarie.
Curiosamente, lo stesso documento prevede che nonostante tutto la pressione fiscale aumenterà al 44% nel 2014, fermo restando comunque che il PIL segua il percorso di crescita stimato dallo stesso Def. Sì, perché tanto il deficit/PIL quanto la pressione fiscale sono rapporti nei quali il PIL si trova al denominatore e perciò, come insegna l’aritmetica, nel caso in cui per qualche ragione il denominatore stesso si trovi a calare il rapporto non può che aumentare.
Ci si potrebbe chiedere perché il denominatore debba calare, al contrario di quanto stimato dalle previsioni del governo. La risposta è semplice, ed è già contenuta all’interno di questo articolo (clicca per leggere) scritto qualche tempo fa: solo i deficit programmati dal governo possono far aumentare la ricchezza netta di cui dispone il settore non-governativo (ovvero quello composto da famiglie ed imprese).
I tentativi di azzeramento del deficit, di cui consistono le politiche di austerità suggerite dalla Troika, fanno infatti ricadere il Paese nella situazione delineata in quest’altro articolo (clicca per leggere), ovvero sottraggono ricchezza netta dal settore non-governativo, determinando innanzitutto un crollo dei consumi e degli investimenti e in seconda battuta una diminuzione del gettito fiscale, portando anche ad un incremento (indesiderato) del rapporto deficit/PIL. Si tratta dei famigerati stabilizzatori automatici, di cui i media non spiegano il funzionamento e che tanto i tecnocrati europei quanto i politicanti italiani omettono di considerare nelle loro stime inconcludenti e fallimentari.
Fino a che punto può spingersi la fantasia di lorsignori? Si può dedurre da questa illuminante tabella riassuntiva delle previsioni elaborate dal governo rispetto ai componenti principali del Prodotto Interno Lordo (Figura 1).
Figura 1: Prospettive macroeconomiche per il periodo 2013-2018. Fonte: Def
Si tratta di stime alquanto oniriche in merito alla crescita futura del PIL, come è possibile evincere osservando la prima riga della tabella, ma c’è di più. Alla voce “investimenti fissi lordi” troviamo un passaggio degno della fervente immaginazione di Lewis Carroll in “Alice nel paese delle meraviglie”, anche se forse la tana del Bianconiglio appare ancora più profonda di quella tratteggiata nel romanzo.
Secondo il governo, infatti, per il 2014 si prevede un aumento degli investimenti privati del 2,0%, a fronte di un dato storico rilevato nel 2013 del -4,7% per la stessa voce. Interessante, per la stessa ragione, come i consumi privati riusciranno a compiere, secondo le stime governative, un salto carpiato dal -2,6% del 2013 ad una modesta ma comunque positiva crescita dello 0,2%.
Secondo i redattori del Def, le “magnifiche sorti e progressive” degli investimenti e dei consumi privati saranno da attribuire all’attenzione del governo per: l’attrazione di capitali dall’estero; la semplificazione dell’accesso al credito per le imprese; la semplificazione del mercato del lavoro e una maggiore flessibilità del posto di lavoro.
Si tratta di misure, direbbero gli economisti, profondamente supply-side, ovvero volte a rendere più produttivo ed efficiente il lato dell’offerta: la minore protezione del posto di lavoro, si pensa, porterà sicuramente le imprese ad avere maggiori incentivi ad assumere. Peccato che perfino le ricerche di economisti mainstream come Tito Boeri e Olivier Blanchard confermano che non esistono correlazioni comprovate fra aumento del grado di flessibilità (o meglio, di precarietà) e diminuzione del tasso di disoccupazione. Un ottimo compendio di questi risultati è fornito da Emiliano Brancaccio (clicca per leggere).
La ragione per cui questo avviene non è difficile da immaginare. Come spiega Alberto Bagnai in un efficace esempio, se un barista che normalmente vende 10 caffè al giorno riesce a produrne 100 la sua produttività è senz’altro aumentata; ma se la domanda dei suoi caffè resta pari a 10, a cosa è servito il guadagno di produttività iniziale?
Il risultato (non) sorprendente è che la soluzione delle crisi come quella che stiamo vivendo passa per il lato della domanda, non per quello dell’offerta (sulla cui efficacia in termini migliorativi, poi, ci sarebbe da discutere). Il tutto è confermato da un recente report della BCE citato da Gustavo Piga (clicca per leggere):
Figura 2. I maggiori problemi fronteggiati dalle PMI europee. Fonte: BCE.
Il grafico mostra che i problemi principali del settore delle PMI in questo periodo sono dovuti alla difficoltà di trovare acquirenti per i loro prodotti (ovvero la bassa domanda) e alla scarsa capacità di accesso al credito visto l’aumento di richieste di garanzia del settore bancario. Naturalmente, ciò deriva dalla bassa fiducia che gli operatori ripongono nello stadio attuale del ciclo economico.
Le banche infatti sono pro-cicliche, esse concedono prestiti solo se prevedono che il credito sarà ripagato. Questa loro fiducia si presenta quasi esclusivamente in periodi di crescita economica (con esiti che spesso diventano “pericolosi” come abbiamo mostrato in altri contributi) mentre cala in periodi di recessione che portano ad un credit crunch (appunto stretta creditizia), facendo precipitare l’economia in uno stato di stagnazione ancora peggiore. Anche questa seconda problematica, quindi, deve essere vista in funzione di un calo generale della domanda aggregata.
Non si capisce perciò come il governo possa pensare che gli investimenti aumenteranno, se non cerca di sopperire a questo problema di liquidità che deriva principalmente da un problema di occupazione e redditi. Se fosse lanciato un programma di occupazione garantita allo scopo assumere chi è rimasto senza lavoro, pagandogli uno stipendio di base, le imprese sicuramente riuscirebbero a trovare i clienti per i loro beni. Ciò porterebbe ad un aumento della produzione e quindi ad un aumento dell’occupazione anche nel settore privato, attivando un circolo virtuoso che invertirebbe tutti i parametri economici negativi che stanno danneggiando irrimediabilmente il nostro paese.
Invece il governo sta decidendo volutamente di continuare a lasciare senza lavoro queste persone, focalizzando la sua attenzione su problematiche che sono o secondarie o minimamente prese in considerazione dalle imprese per aumentare le vendite e gli investimenti. Studi empirici (clicca per leggere) di Olivier Giovannoni (Bard College) e Alain Parguez (Università di Besançon) mostrano infatti come la variabile di maggiore impatto sui profitti di lungo termine è il livello dei consumi, e perciò è falsa l’idea secondo cui consumare di meno oggi consente di risparmiare di più domani (come ripetuto anche dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in un discorso recente). È vero invece che mancati consumi oggi significano meno investimenti e meno profitti domani, e quindi un decadimento progressivo dell’economia.
Dopo che il governo avrà flessibilizzato il mercato del lavoro (principalmente in uscita) e avrà tagliato la tanto odiata burocrazia (che nel bene o nel male significano ancora redditi, quindi spesa e quindi redditi per altre persone, come dimostrato in questo ottimo paper), le imprese, che potranno assumere più facilmente, grazie a più bassi costi di assunzione e maggiore capacità di licenziamento e avranno meno barriere burocratiche per gli investimenti, non avranno nè l’interesse nè la possibilità di farlo. Esse non troveranno infatti la domanda necessaria ad assorbire la loro produzione anche perché i tanto voluti tagli alla spesa pubblica avranno aumentato la disoccupazione, aggravando ancora di più la situazione.
Giacomo Bracci e Francesco Ruggeri
Riguardo a questa affermazione: “Se fosse lanciato un programma di occupazione garantita allo scopo assumere chi è rimasto senza lavoro, pagandogli uno stipendio di base, le imprese sicuramente riuscirebbero a trovare i clienti per i loro beni.” avrei un dubbio, da cui una domanda. Se restiamo nel sistema euro (tralasciando ovviamente il fatto che non possiamo sforare il 3%, dobbiamo rientrare dall’eccesso di debito eccetera eccetera e quindi queste cose non le possiamo certo fare) posto di poter fare quanto indicato sopra, non sarebbe comunque possibile che data la competitività della Germania e continuando essa a porsi come maggior esportatore dell’eurozona noi daremmo solo un impulso alle nostre importazioni e quindi vedremmo vanificato il potenziale effetto di rilancio nella produzione interna? Ovvero, è da molti anni che il PIL cresce poco e che importiamo parecchio, che delocalizziamo e che ci indeboliamo economicamente. Cioè il fatto di riuscire ad aumentare la domanda aggregata e basta temo che con la moneta unica possa tranquillamente determinare un autogol o comunque che gli effetti positivi potrebbero essere molto smorzati. In ogni caso il debito crescerebbe, perderemmo ulteriore credibilità, gli investitori si allontanerebbero, dovremmo alzare i tassi, ed ecco che facciamo schizzare ancora il debito e via nella spirale perversa. Voglio dire: ma comunque non dovremmo obbligatoriamente abbandonare la moneta unica?
Esatto. Dentro l’Euro, arricchiremmo solo le imprese tedesche, assecondando il capitalismo nella sua forma più “concorrenziale” e poco redistributiva.
È quello che cerca di spiegare alla sinistra, invano, Bagnai da tanto tempo…
Per qualche motivo, la sinistra ama le grandi imprese tedesche e fa nulla se ne resteranno sempre meno nel sud europa… l’occupazione sarà assistenziale e ci sarà una forte emigrazione… ma l’occupazione non sarà mai la stessa (meno aziende, più efficienza, meno forza lavoro necessaria).
Ecco come funziona il cervellone che protegge l’euro (e perché al Sud viene imposta austerity anche in fasi recessive)
http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2014-04-16/ecco-come-funziona-cervellone-che-protegge-euro-e-perche-sud-viene-imposta-austerity-anche-fasi-recessive-111444.shtml?uuid=ABI7vRBB
Di Vito Lops.
L’argomentazione di Bagnai non mi convince nel senso che è incompleta.
Il suo punto è in pratica che se forniamo uno stimolo di 100 € alla domanda aggregata dell’Italia dentro l’euro, 60 di essi si tradurranno in acquisti di beni o servizi da imprese estere (prevalentemente tedesche) e di conseguenza avremmo due effetti:
1) un problema finanziario, dovuto al fatto che saremmo in una condizione di perenni debitori, e che si riverbera negli spread sia sui titoli pubblici che sugli interessi bancari;
2) un problema reale, legato al fatto che i profitti fluirebbero verso il centro e la periferia soffrirebbe di desertificazione produttiva.
Entrambi i problemi potrebbero essere risolti dalle attuali istituzioni europee, se ci fosse la volontà politica.
Il primo è semplicemente un problema di operatività della BCE: se volesse potrebbe livellare gli spread nella stessa misura in cui riuscì a bloccare la crisi nel 2012, comprando i titoli di stato per cui c’è poca domanda e vendendo quelli per cui ce n’è molta.
Il secondo potrebbe essere risolto mediante investimenti pubblici nelle zone a maggiore disoccupazione, e comunque bisogna ricordarsi che l’economia è un gioco di costi e benefici: a fronte del costo monetario delle importazioni, che tolgono risparmi all’economia del nostro paese per crearne altrove, c’è un beneficio reale costituito dal fatto che il nostro paese consuma più beni di quanto ne consumi il paese estero esportatore.
Alla radice c’è quindi il problema del rapporto tra i redditi del nostro paese e i consumi (come mix di consumi di beni nazionali ed esteri), ovvero: i redditi sono troppo bassi e bisogna fornire lavoro.
Dico questo non perché mi piaccia particolarmente l’attuale assetto istituzionale dell’euro o perché penso che non ci sia vita al di fuori di esso, ma perché è necessario identificare correttamente il problema. Non è come dice Bagnai una questione di “mancata competività” e di “eccesso di indebitamento” del centro verso la periferia, ma piuttosto un problema di domanda all’interno dei paesi della periferia. E a ben vedere nemmeno i lavoratori tedeschi se la passano troppo bene, nel senso che per essere dei grandi esportatori netti bisogna comprimere la domanda interna.
Il problema è che se si persegue questa politica del massacro sistematico della domanda interna, le cose si fanno sempre più complicate …
E se Fassina avesse ragione? Se le misure renziane di rilancio ci porteranno ad un aumento del debito pubblico e finanche ad un intervento della Troika stile Grecia…
Fassina è un ipocrita parolaio. Già visto, già testato…http://www.ilmoralista.it/2014/01/06/fassina-double-face/
Sono d’accordo, l’ho solo citato perché lo ritengo competente, ma so bene che sta dalla loro parte …
infatti mi meraviglio che sia sempre presente nei dibattiti internazionali di a/simmetrie …
Senza dimenticare quella perla di video, in cui il diretto responsabile della “provvidenziale” austerity che ha dato inizio alla macelleria sociale, lo dice chiaramente, candidamente, senza alcuna vergogna …
Monti confessa: “Stiamo distruggendo la domanda interna”