Ieri, nel bel mezzo di un talk show televisivo, l’amico Diego Fusaro ha ricordato ad un imbufalito Antonio Di Pietro la vera natura di “Tangentopoli”, colpo di Stato architettato da una cosmopolita oligarchia massonico-finanziaria che non vedeva l’ora di mettere le mani sull’argenteria di Stato dopo avere imposto al potere una masnada di tecnocrati e lestofanti appositamente istruiti. Di Pietro, come al solito incapace di articolare un ragionamento in italiano degno di un homo sapiens, ha provato a buttarla in caciara, sfoderando tutto il suo repertorio di buzzurro che sciorina bestialità sintetiche usate per impressionare gli ingenui: “ma quale golpe…c’erano quelli che rubavano”, starnazzava quindi il Tonino nazionale paonazzo in viso, lanciando pateticamente la palla in calcio d’angolo. Ora, non c’è uomo intellettualmente onesto e sano di mente che non possa non riconoscere come demagogica e fasulla l’impostazione dipietresca, disperatamente protesa nel tentativo di dare a bere agli italiani che la più grande liquidazione mai avvenuta nella storia occidentale di intere e storiche famiglie politiche sia stata solo l’effetto collaterale- e non previsto- di indagini neutre che puntavano a sradicare la “corruzzione” (con due zeta) dalla vita pubblica italiana. Adesso, se non lo avete ancora fatto, potete ridere. E questa grande opera di moralizzazione, che ipnotizzò allora un Paese di fessi irretiti da giornalisti alla Eugenio Scalfari, Vittorio Feltri e Antonio Polito, avrebbe inerzialmente dato vita ad una seconda Repubblica consegnata in dote ai post-comunisti orfani dell’oro di Mosca e al piduista Berlusconi, fulgidi e viventi esempi dell’avvenuta catarsi. Ecco, chi non ha riso prima, non può esimersi dal farlo almeno adesso. Mani Pulite fu in realtà una spregiudicata operazione che coinvolse diversi livelli di potere, agevolata dall’oggettivo indebolimento della vecchia classe dirigente primo-repubblicana. Detto questo vi invito però a non banalizzare il discorso, non sto infatti dicendo che il pool di Mani Pulite colpiva consapevolmente bersagli indicati da potentati esterni. Le logiche di potere camminano su binari più sottili, tendono cioè a creare le condizioni fattuali affinché alcuni risultati si realizzino senza che necessariamente tutti i protagonisti (specie con riferimento ai livelli visibili e operativi) abbiano una cognizione piena e complessiva di cosa stia effettivamente accadendo. L’inizio di Mani Pulite coincide con la fine del benessere e della democrazia italiana, svuotata nel nome della supremazia di mercati finanziari che affamano la povera gente agitando spauracchi infingardi come lo “spread” e il “debito pubblico”. Una ovvietà lampante che solo un giornalista svampito- e perciò tutto sommato incolpevole- come Michele Serra può beatamente disconoscere. Un bel libro di Biagio Marzo (che Serra, finito di leggere Topolino, potrebbe provare a sfogliare), “Fatti e misfatti delle privatizzazioni”, spiega come la stagione dei “tecnici illuminati” al potere- Amato, Ciampi, Prodi e compagnia- abbia determinato la svendita dell’ingente patrimonio pubblico italiano, finito a costi risibili nelle mani di grandi corporation e banche d’affari internazionali. Quelle stesse banche d’affari che, dando vita al meschino fenomeno delle “porte girevoli”, assumono sovente e a peso d’oro in qualità di “consulenti” gli ex governanti che, nel nome della supremazia del privato, favorivano prima la rapina dei beni pubblici. Ma questa, caro Di Pietro, nella neolingua di Orwell non si chiama corruzzione (sempre con due zeta) ma “competitività”. En passant vale poi la pena di ricordare che il gran ciambellano che supervisionò negli anni novanta le scandalose privatizzazioni italiche risponde al nome di Mario Draghi, uno che non a caso ha fatto poi (e sta ancora facendo) una bella e fulgida carriera. La ricostruzione appena sinteticamente abbozzata è infine monca poi per difetto, perché non si può tacere come il biennio ’92-93, quello che determinò il passaggio dalla prima alla seconda Repubblica, fu cadenzato non solo dagli avvisi di garanzia di Milano ma anche dalle bombe esplose prima in Sicilia e poi in continente, costate notoriamente la vita anche ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Una stagione torbida e di misteri irrisolti che vedrà finire sul banco degli imputati pure l’ex numero tre del Sisde Bruno Contrada, la cui condanna a dieci anni di carcere per concorso esterno in associazione mafiosa è stata recentemente annullata dalla Cassazione. Lo stesso Contrada che il 15 dicembre del 1992, nove giorni prima di finire arrestato, cenava per una mera e insignificante casualità, proprio in compagnia di Antonio Di Pietro e di un altro alto papavero in forza all’agenzia investigativa “Kroll”, succursale della Cia. “Quando il caso dice la combinazione” chioserebbe il Principe Antonio de Curtis, per gli amici Totò.
N.B. A Marzo, pubblicato dal “gruppo editoriale Uno”, uscirà il mio prossimo libro
Francesco Maria Toscano
20/10/2017